Voto 8 all’impegno politico, un 6 di media (stentato) ai film in corsa per la Palma d’oro di Cannes, almeno finora. Punteggio in progress, perché ne abbiamo visti sei su ventidue e il meglio si tiene sempre in serbo per dopo. C’è chi parte benone e si perde, come Oliver Laxe con Sirat, che allude alla stupidità dell’Occidente nel Terzo Mondo in fiamme e come Ari Aster con Eddington, che radicalizza il negazionismo della Destra Usa e il complottismo su rete agli albori del Covid. E c’è chi frana senza pudore, come la molto amata star magrebina Hafsia Herzi lanciata da Abdellatif Kechiche in Cous Cous e promossa al concorso principale con la sua terza regia, La petite dernière.

Lesbica e musulmana devota: ha fatto chiasso per la doppietta il romanzo autobiografico in prima persona di Fatima Daas uscito in Francia nel 2020. In Italia La più piccola è uscito con Fandango. Herzi ne ha fatto un film. Sarebbe stata più interessante la sua, di storia, prima di quattro figli allevati da una madre colf nella Marsiglia più povera. E chi sperava in un trasgressivo manifesto queer si è incagliato in una regia che usa l’appeal pruriginoso per annacquare il sesso come la più vecchia e retriva Hollywood puritana.

Una conquista di identità

Il Corano non perdona l’omosessualità più di quanto la perdoni il cristianesimo (sì, lo so quello che state per dire), ma su quello femminile è po’ meno intransigente perché «non c’è penetrazione», spiegherà l’Imam quando Fatima avrà il coraggio di tradurre in parole i propri travagli segreti. Ma questo bruciante dissidio, accettare se stessa senza rinunciare alla fede, è interamente delegato al montaggio e all’outfit alternato: burqa integrale per le preghiere quotidiane e disinibizione occidentale nel sesso e nella vita ordinaria. Il pathos, se c’era, è rimasto nel libro.

Seguiamo invece una conquista di identità piuttosto convenzionale. Fatima (l’esordiente Nadia Melliti) è una liceale studiosa e ben integrata, la prima della famiglia nata in Francia e non in Algeria, che ai fronzoli preferisce le tute da football, il suo sport del cuore: lo stereotipo dell’adolescente che si bolla come ‘mascolina’. Ha perfino un fidanzatino coetaneo che vorrebbe sposarla a breve. La spia del disagio sono le crisi di asma, all’acme quando in una lite scolastica vola l’epiteto ‘lesbica’. E proprio a una seduta di training per asmatici gli sguardi di una giovane infermiera coreana (Park Ji-min) la colpiscono al cuore.

foto june film

In realtà sono però le app di incontri a spianarle la strada. Non so nel libro, ma nel film le prime esperienze sono catechismi di chiacchiere su tecniche e posizioni: leccare i punti giusti, ‘forbice’, il classico e unisex 69. Trasgressioni verbali. Sensualità zero, emozioni nessuna. Ma il sentimento è in agguato con l’infermierina: un bacio interminabile per dare conto della pienezza dei sensi.

L’intimità del rapporto è affidata alla sincerità con cui Fatima dichiara per la prima volta il proprio vero nome e le proprie vere origini. Quanti anni sono passati dai tempi di La vie d’Adèle di Kechiche? Una dozzina. Non è che corra l’obbligo di alzare l’asticella, e il problema non è "mostrare”, ma liberare empatia, partecipazione, calore.

Un Medioevo puritano

La coppia sembra salda, marcia felice al Gay Pride, ma di colpo l’infermierina va in crisi depressiva – o almeno così sostiene – e pianta Fatima con un secco: “Vattene, per favore». Nella trasposizione su schermo l’autofiction della scrittrice procede per stagioni. Nell’autunno universitario – indirizzo filosofico – la nostra eroina piace molto ai ragazzi, un passaporto per le feste esclusive. Dove continua a negare, ufficialmente, la propria identità sessuale ma si dedica attivamente ad amplessi triangolari – sempre visivamente castigati ma enfatizzati da un montaggio “a schiaffo” di natiche femminili e moschee – e alle chiassose nottate nelle discoteche queer parigine. Sempre, ovviamente, col cuore in frantumi, perché l’amata non risponde ai messaggi. Dopo i bagordi la tappa fissa è la finestra rimpianta sotto cui lacrimare.

Dei tormenti religiosi ti saresti scordato da un pezzo, senza il colloquio da penitente con l’Imam di cui riferivo all’inizio. Ma il vero quesito che tormenta Fatima è poi più banale: Allah la sta forse punendo della sua perversione con il feroce abbandono patito? Dovrà espiare tornando dal povero fidanzatino o basta pregare con più devozione?

L’apoteosi di regia arriva con il riaggancio dell’infermierina pentita, in un parco galeotto e notturno. Avete presente quando le scene di sesso, nei film, si giravano inquadrando soltanto i volti in estasi con una ruffianissima musica di sottofondo? Bentornati nel Medioevo puritano, che oggi resta la norma solo nelle commediole romantiche da piattaforma. Per le quali funzionerebbe a meraviglia, in finale, anche l’intelligenza emotiva di quella mamma amorevole eternamente barricata in cucina, in apparenza capace soltanto di sfornare bombe caloriche. Alla sua Fatima che compie (forse) vent’anni e delle sue faccende non le ha mai parlato, regala una nuova, fiammante, griffata tuta da calcio. Senza bisogno di discorsi, sua figlia per lei è sempre stata un libro aperto.

Non avrei speso tante parole senza l’aspettativa mediatica per questo film, senza le corpose interviste a Hafsia Herzi e alla scrittrice dilagate su tanta stampa, senza i pronostici di film-sorpresa, di “rivelazione” del Festival. Ma è sempre il caso di combattere le idées recues, come le definiva Gustave Flaubert nel suo Dictionnaire. Non occorre essere donne e gay (Herzi non lo è) per raccontare amore e sesso tra donna e donna. Anche Todd Haynes lo aveva fatto a meraviglia con Carol. Basta essere bravi registi.

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