Menzogna romanzesca: un titolo come quello proposto non può non ricordarne un altro molto celebre, ossia Menzogna romantica e verità romanzesca. In quel saggio del 1961, René Girard analizzava la struttura del cosiddetto “desiderio triangolare” in alcuni classici della letteratura occidentale, ricostruendo i rapporti tra personaggio, oggetto desiderato e mediatore.

Così facendo, portava alla luce il fatto che la “menzogna romantica” del desiderio puro nasconde la “verità romanzesca” del desiderio mediato. «Mitizzando l’eroe, cito, accreditandogli una completa spontaneità di passioni e azioni, il romanticismo occulta l’altro, il persuasore o il mediatore».

Controversa ma poderosa, al confine tra letteratura e antropologia, psicologia e mitografia, l’opera, non esitava a misurarsi con Cervantes, Stendhal, Flaubert, Dostoevskij, Proust. Insomma, come si sarà capito, quella di Girard fu un’impresa quasi irripetibile. Sgombrato dunque il campo da questo ingombrante ospite, cosa si potrà dire intorno al concetto di “menzogna romanzesca”? Premetto che ho esordito scrivendo versi, e dunque ho gioco facile nel citare Fernando Pessoa: «Il poeta è un fingitore».

Giusto, ma anche il romanziere non scherza mica. Comunque preferisco attenermi alla mia esperienza personale, la sola su cui posso nutrire una qualche certezza. Pubblicai la prima raccolta di poesie nel 1980, mentre il mio primo libro di prose uscì nel 2003. Perché tanti anni di mezzo?

Inizio col confessare che, in effetti, un mio racconto apparve in rivista nel 1986. Mi vergogno ad ammetterlo: il nome del protagonista era Arturo Di Bruma. Vi dice niente? È l’anagramma di Rimbaud. Tornai su questo gioco nel 1992, quando composi due brevi racconti intitolati Alle lagrime, rovi e Rivelarmi al gelo. Questa volta gli anagrammi si riferivano al mio nome, “Valerio Magrelli”. Ma che significava tutto questo? Semplice: una insormontabile difficoltà nel maneggiare i nomi propri, la stessa che ritrovai in alcuni maestri della letteratura francese.

Pare infatti che Flaubert, mentre pensava al libro che più tardi sarebbe diventato Bouvard et Pécuchet, ancora non sapesse come chiamare i suoi eroi. Il rovello durava ormai da tempo, finché un bel giorno venne a sapere che Zola aveva composto un racconto utilizzando, appunto, quei due nomi. Scoprirli, e capire che essi gli appartenevano, o meglio appartenevano alla sua opera, fu tutt’uno: Flaubert implorò che gli fossero donati, e Zola, generoso, accondiscese.

Sarà una storia vera, o l’ho sognata? Certo è che mi conduce nel cuore del problema, quello cioè della “necessità” del nome proprio. In breve, io non avrei mai il coraggio di chiamare i miei protagonisti Sergio, Stefania, Luciana o Valerio – forse perché non sono un romanziere, bensì un cantastorie, un contastorie. Tutto questo discorso va riportato a una famosa polemica di Paul Valéry contro la mancanza di rigore della narrativa. Per spiegarsi, egli immaginò il più banale degli incipit: «La marchesa uscì alle cinque». Ebbene, osservava l’autore, perché “marchesa” e non “baronessa”? Perché “uscì” e non “rientrò”? Perché alle cinque e non alle sei?

Per Valéry, poeta e saggista, il genere del romanzo risultava gratuito e arbitrario, pieno di informazioni perfettamente sostituibili, a differenza, appunto, della poesia e del saggio. Ed era esattamente ciò che io pensavo dei nomi propri! A queste teorie, tuttavia, Julien Gracq, romanziere, rispose nel più brillante dei modi, accusando Valéry di frigidità: «Ogni volta che si occupa di romanzi, lo fa come un maestro di ginnastica che criticasse la mancanza di energia nei movimenti di un coito: si formalizza su uno spreco di energia di cui non vuole conoscere la posta in gioco».

Non male, accusare il nemico di scambiare l’atto erotico per un esercizio d’atletica! Insomma, Gracq aveva perfettamente ragione. Anche se all’inizio della storia i nomi scelti per i protagonisti possono apparire falsi o magari menzogneri, la forza progressiva della narrazione finirà per trasformarli in autentici, investendoli di destino. Direi anzi che il romanzo rappresenta quello spazio in cui l’arbitrarietà e la gratuità dei riferimenti (l’uscita della marchesa alle cinque) si sciolgono retrospettivamente nella potenza inverativa del racconto.

Quanto a me, pur ammettendo la sconfitta di Valéry, nelle mie prose ho continuato a non usare mai nomi propri, perseguitato (e lo sarò per sempre) da quella marchesa francese, lontana parente un cane statunitense. Sì, perché, a ben vedere, lo Snoopy di Charles Schulz propone esattamente lo stesso problema letterario, allorquando, seduto in cima alla cuccia, batte a macchina il memorabile brano: «Era una notte buia e tempestosa». Facile immaginare le obiezioni di Valéry: perché non “una sera”? Perché non “chiara”? E perché non “tranquilla”?

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