Essere figlio di un chirurgo di provincia ha vantaggi e svantaggi. Soprattutto svantaggi. Mio padre era scrupoloso con i suoi pazienti, che lo rispettavano e lo amavano, ma in casa si disinteressava completamente delle malattie mie e dei miei fratelli. Fuori era gentile, in casa scorbutico e taciturno.

Mia madre doveva insistere perché mi guardasse le tonsille che si infiammavano di continuo annoiandolo moltissimo, tanto che un giorno mi portò nel piccolo ospedale e me le tolse senza anestesia, facendomi tenere da due infermieri nerboruti. «Sputa» mi diceva. E io sputavo sangue. Sentii il taglio giù nel profondo della gola e le forbici emisero quel suono che producono le forbici da cucina quando tagliano il pollo. Se proprio vogliamo essere precisi devo anche aggiungere che durante il rudimentale intervento chirurgico mio padre fumava, aiutato dall’infermiera vistosa considerata da tutti sua amante. Alla fine ebbi un gelato di consolazione ma l’immagine di mio padre ne uscì offuscata per sempre.

Tutti in paese lo trovavano umano e comprensivo, come medico, e tutti lo lodavano. A una aveva tolto le vene varicose, a un altro l’appendicite, così quando attraversava la piazza del paese, elegante, di solito vestito di grigio, con l’immancabile Edelweiss tra le dita, lo salutavano tutti come un’autorità benevola che ai miei occhi davvero non era.

Mio padre aveva fatto la guerra, era anche stato con i partigiani pur essendo cattolico (assai bestemmiante, in casa) e sembrava che nulla potesse stupirlo. Non era di quelli che ti raccontano episodi del loro passato, che per lui non esisteva. Aveva studiato a Bologna, lavorato in diverse città prima di mettere su famiglia, ma neppure della sua città d’origine parlava mai. Viveva in un eterno presente indossando una sorta di maschera pubblica, basata su una convinzione condivisa da tutti: un medico di quel livello in una cittadina come la nostra era davvero un colpo di fortuna. Lo pensava anche lui, che secondo me preferiva essere idolatrato in provincia anziché diventare uno dei tanti in città. Impossibile elencare i regali, prosciutti e bottiglie di vino, che ci arrivavano in casa quasi ogni giorno.

Come tutti gli uomini della sua generazione, mio padre era nato nel 1921, era un appassionato giocatore di carte e ospite fisso del circolo cittadino, che accoglieva anche i piccoli proprietari terrieri della zona e i pochi minuscoli industriali. Il circolo era esattamente sopra l’ingresso del teatro cittadino, e dalle sue finestre si vedeva la piazza principale. Mio padre non amava il cinema, che veniva proiettato nel teatro, e neppure i rari spettacoli teatrali, e se lo si vedeva da quelle parti potevi essere certo che andava a sedersi al suo solito tavolo pronto ad alzare un mazzo di carte.

Tutte qua le sue passioni: la caccia, le infermiere, le carte. Avevo più o meno undici anni e non avevo mai visto né un morto né una donna nuda, e queste due mancanze, associate in modo naturale e inspiegabile, mi torturavano abbastanza. Manca ancora un tassello per completare il ritratto essenziale di mio padre, che faceva parte della stessa ossessione: mio padre se ne fregava della morte. Succedeva spesso che durante la cena, rispondendo a mia madre, se ne uscisse con un «Ah sì, è morto stamattina...» mentre infilzava un involtino al formaggio o una coscia di lepre. Quando aveva voglia di scherzare, cosa che accadeva di rado e forse con l’aiuto di un paio di Chianti, diceva invece «è moruto» e rideva da solo. Tutta qui l’ironia di cui disponeva.

Come districare questo miscuglio di sensualità e morte riassumibile nella faccia tosta di mio padre? Questo groviglio ha in qualche modo determinato la mia vita e anche a distanza di tanti anni, quando tutti i personaggi di questa storia sono scomparsi, non riesco a districarli. Mio padre riceveva anche in un ambulatorio privato, e lì lo seguiva la sua infermiera preferita, odiata da mia madre, che tutti i ragazzini chiamavano Fichetta. Prosperosa, sorridente, elastica, una giovane signora così, con molto rossetto sulle labbra. I pettegolezzi, sui soldi perduti al gioco e sulle amanti, volavano per ogni dove, anche in forma di lettere anonime, ma lui se ne infischiava e mia madre continuava a covare rancori che a un certo punto sarebbero finalmente esplosi, molto tardi purtroppo per lei. Allora tutto sembrava immutabile. Le giornate erano scandite dal lavoro di mio padre. Dalla cucina potevamo vedere la grande finestra illuminata della sala operatoria e mia madre accendeva i fornelli quando la vedeva spenta. Faceva spesso tardi e tornava nervoso, anche perché amava svegliarsi presto e andare a caccia due ore prima di tornare in ospedale.

Dismesso il camice indossava la sua elegante tenuta da cacciatore, e sceglieva un fucile tra i tanti che aveva. Era un buon tiratore, e teneva due bracchi secondo lui bravissimi da un contadino al quale aveva sistemato un’occlusione intestinale. Uccideva lepri, fagiani e beccacce, sbagliando di rado il colpo. Per un po’ mi aveva costretto a partecipare alle sue battute ma dopo avermi fatto sparare qualche cartuccia mi aveva escluso dalla piccola comitiva con un delicato «non sei buono a niente». Mi facevano impressione quelle gocce di sangue che uscivano dalle pellicce e tra le penne delle sue prede. Gocce perfettamente rotonde, ricordo.

Mio padre adorava uccidere e adorava i complimenti degli altri cacciatori. «Bel tiro dottore!», «bravissimo!», e lui sorrideva, e poi accarezzava le prede che gli macchiavano le mani di sangue. Come dicevo, mio padre era abituato alla morte, il sangue non gli faceva nessun effetto, anzi forse lo esaltava. Aveva un coltello affilatissimo, proibito a noi figli, con il quale scuoiava in un attimo le lepri che uccideva. Mia madre detestava pulire la cacciagione. In quel periodo nascondevo un dolorino di pancia perché avevo paura che mio padre me la tagliasse brutalmente, eseguendo una sanguinosa appendicectomia su due piedi. Parlando molti anni dopo con un amico psichiatra scoprii che quel mio timore veniva definito angoscia di castrazione! Ogni figlio, secondo lui, teme che il padre lo castri per restare l’unico maschio di casa.

Ecco, se tuo padre è un chirurgo e un assassino di lepri si esce dal simbolico e l’immagine acquista ben altro spessore. Anche la vita sessuale di mio padre, spettegolata da tutti, aveva qualcosa di sanguinario, nella mia fantasia. A un certo punto ci fu una sorta di svelamento e la mia visione del mondo mutò radicalmente. Vidi quel che c’era da vedere, e tutto accadde in teatro e davanti al teatro. Un ragazzo più grande, che a volte si degnava di parlare con un moccioso come me, si aggirava per la piazza sorseggiando una Cambusa, strano liquore di quei tempi, in un particolare bicchiere dotato di un curioso beccuccio. Era considerato molto elegante chiedere al barista una Cambusa e poi accendere una sigaretta HB. Quel ragazzo più grande, una divinità ai miei occhi, mi disse: «Ma tu l’hai mai vista una donna nuda?» Ammisi che no, non l’avevo mai vista.

Lui sorrise, aspirò un sorso di liquore stringendo le labbra attorno al beccuccio, e con un sorrisetto benevolo mi mostrò una foto in bianco e nero: una giovane donna nuda! Con le braccia aperte e sollevate in alto. Seni con capezzoli chiari. Il triangolo scuro del pube. Gambe divaricate. Senza scarpe. Incredibilmente simile all’infermiera di mio padre. La visione mi lasciò senza parole ma il giovane con Cambusa fece sparire subito la foto e mi lasciò lì in piazza così smarrito che non sapevo dove andare. Non sapevo neppure che i manifesti appesi davanti al teatro annunciavano un’altra visione importante, ma a quanto pare gli svelamenti devono avvenire tutti insieme.

Era atteso in città un noto prestigiatore, che si annunciava con una foto in frac e una bacchetta magica in mano. Doveva avere una certa età, perché dalla tuba che aveva in testa sbucavano ciuffi di capelli bianchi. Si creò una certa attesa per lo spettacolo del Mago, come chiamammo noi ragazzi il misterioso personaggio del manifesto. Il sabato sera il teatro era pieno in ogni ordine e grado. Era un vecchio teatro italiano, con poltrone imbottite e velluti rossi qua e là, spesso bruciacchiati dalle sigarette. C’erano tutte le autorità, dal sindaco al comandante dei carabinieri, con consorti e figli.

Mio padre e mia madre erano nel palco centrale, il più prestigioso, io con gli amici nelle prime file in platea. L’atmosfera era assai fumosa, e le deboli luci sul vecchio sipario ondeggiavano un po’ attraverso il filtro del fumo. Fumavano tutti moltissimo. Anche noi ragazzi lo facevamo quando andavamo a vedere i film senza genitori. Ognuno di noi rubava al padre quattro o cinque sigarette e poi le fumavamo tutte entro la fine del secondo tempo. Nessuno si rendeva conto dell’aria irrespirabile, era normale. Uno dei miei amici aveva un paio di Stop senza filtro in tasca ma eravamo troppo in vista e non riuscimmo a fumarle. Insisto sul fumo perché le sigarette furono protagoniste assolute dello spettacolo.

Il Mago era elegantissimo, indossava davvero un frac pieno di brillanti ma era molto più vecchio rispetto alla fotografia che annunciava lo spettacolo. Era alto, sorridente, con un sorriso particolare da spettacolo, studiato proprio per il pubblico, forse per distrarlo dai suoi trucchi. Sapevamo che erano trucchi ma ai nostri occhi si trasformavano in vere magie. Apparivano colombe bianche, svolazzavano via e prima non c’erano. E poi carte da gioco, carte dovunque. Assi di cuori, re, fanti. Li acchiappava al volo agitando la mano in una nuvola di fumo che emetteva dalla bocca. Perché lui era un Mago fumatore.

Sigarette lunghe con filtro dorato, mai viste. Ne accendeva una dopo l’altra, e appena le accendeva sparivano. Ogni tanto dalle quinte faceva capolino un pompiere con tanto di elmetto e questo aumentava l’ammirazione del pubblico, che applaudiva sempre più forte. Le luci sul Mago erano perfettamente disegnate come i coni nei libri di geometria, rette divergenti nel fumo. Il fumo che stagnava sul pubblico era grigio, quello sul palco era invece dorato e brillante. Secondo un mio compagno il trucco consisteva in questo: le sigarette non esistevano, in realtà! Erano illusioni suscitate dal Mago. «Tu credi di vederle! e il Mago ti frega!» Il Mago continuava a sorridere e a accendere sigarette, fino all’apoteosi finale. Inspirò a lungo una delle sigarette e annunciando il gran gesto con un movimento circolare delle mani emise dalla bocca una grande nuvola di fumo, sputandola verso l’alto. Nonostante l’età e la sua notevole altezza il magrissimo Mago sapeva muoversi con grande eleganza. Ogni suo gesto era misurato e lento, come in una danza. Sembrava dire al pubblico: non vi inganno con gesti bruschi, mi muovo lentamente, con calma, per lasciarvi il tempo di ammirarmi.

Si può anche riuscire a nascondere una sigaretta tra le dita per poi farla apparire, ma lui ne aveva fatte apparire a decine, e tutte fumanti. Nella nuvola gigante ne acchiappò almeno dieci e le tenne tutte tra le dita, tirando una boccata da ognuna. Poi fece un passo avanti e mostrò le mani fumanti al pubblico che già applaudiva. Le sigarette erano lì, potevo vederle a due metri, tra le sue dita, e il sorriso del Mago si era fatto più ampio, tanto che i denti mi sembrarono finti, e forse lo erano. Un magnifico sorriso di plastica.

Mentre si godeva l’applauso il Mago guardò con la coda dell’occhio il suo assistente che entrava in scena con un carrello pieno di bottiglie per il numero successivo. Gli rivolse uno strano cenno e il sorriso di plastica sparì. Poi accennò un inchino e con due passi tornò tra le quinte. L’assistente, rimasto solo con il carrello cercò di sorridere come il Mago, ma dopo un attimo sparì anche lui correndo dietro le quinte. Si creò una fumosa bolla di silenzio, nel teatro, e all’improvviso si chiuse il sipario. Dopo un istante l’assistente del Mago, cercando di nascondere la sua agitazione con un sorriso fece capolino tra i due lembi e disse ad alta voce: «C’è un medico in sala? Se per favore può salire sul palco... grazie!» Gli occhi di tutti erano puntati su mio padre e io d’istinto mi precipitai verso l’uscita per salire al suo palco.

Lo incontrai, tranquillo e con Edelweiss in bocca, mentre scendeva le scale accompagnato dal direttore del teatro, agitatissimo. Mio padre mi vide e mi lasciò andare con lui, lasciandosi sfuggire un insolito gesto affettuoso: camminando mi scompigliò i capelli. Aveva lo stesso passo quando caricava il suo automatico e si avvicinava alla preda. Calmo, dritto allo scopo. Soltanto l’azione lo interessava, tutto il resto non era altro che un brusio fastidioso. E così, per dirla tutta, andava a scannare Fichetta, compiendo un misterioso e crudele rito orientale del quale non sapevo nulla. Le persone che trovammo dietro le quinte sembravano come paralizzate, e ognuno guardava un punto diverso, un sacco di sabbia appeso a una corda, un groviglio di fili, il pompiere. Soltanto il giovane assistente sembrava agitato e continuava a schiaffeggiare il Mago, seduto in posizione ben eretta su una sedia di scena. Sembrava addormentato.

Mio padre gli aprì gli occhi, gli ascoltò il battito sul collo. Nel frattempo era giunto anche il comandante dei carabinieri, che si mise accanto a mio padre. «È morto» gli disse mio padre. «Un infarto, ha le dita scure guardi...» Mentre si apriva la discussione sul giudice da chiamare e sull’ambulanza, il mio sguardo corse verso il centro del palco, pieno di decine di cicche calpestate. Esistevano e come, quelle sigarette! Impossibile farle apparire così, impossibile! E adesso il Mago era morto e stava lì, seduto con signorilità davanti al suo pubblico. Il primo morto che vedevo, lo aspettavo da anni. Un morto in frac, anziano e piuttosto alto, con le mani composte sulle gambe come se fosse in posa. Anche se le luci principali erano state spente il frac continuava a brillare con decine di pietruzze preziose incastonate nel tessuto. L’assistente continuava a battere le mani incredulo, come per dirgli «ma che diavolo mi combini» o forse per omaggiarlo con un ultimo applauso. Mio padre si ricordò all’improvviso di me e mi accompagnò verso l’uscita commentando con un essenziale: «È moruto... Aveva la sua età, aveva la sua età...»

In quei giorni lontani stavo entrando in una nuova fase della mia vita, e ne avevo esatta percezione. Ero diventato un altro. I vecchi giochi non mi interessavano più. Avevo visto una donna nuda, era indiscutibile. Con le braccia aperte. Un triangolo scuro. E un mago era morto davanti ai miei occhi. Un signore all’improvviso smette di respirare e resta lì fermo dove si trova, e ce lo puoi lasciare per sempre, a lui non importa. Con questi pensieri in testa uscii dal teatro, mentre strane immagini si sovrapponevano diventando un tutt’unico. Donne nude, morti seduti, scannatoi. Soddisfare curiosità coltivate così a lungo ti lascia una sorta di vuoto dentro, quasi una delusione.

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