In un ristorantino tipico del centro di Milano, Fran Lebowitz si guardava intorno contrariata. Troppi bambini urlanti. In effetti era piuttosto strano: il posto, piccolo e riservato, boiserie e moquette in toni caldi, era decisamente lontano dal family friendly e ogni tavolo attorno al nostro era dotato di almeno un bebè, un bimbo in passeggino, uno in seggiolone o un ragazzino.

E non di quelli calmi e quieti, magari rassegnati alla cattività di una serata da adulti, ma della categoria che ha la necessità di uno schermo colorato e rumoroso davanti al naso per tutta la durata della cena per non mettersi a sbraitare. Insomma, anche per me che sono assolutamente convinto della democrazia totale in fatto di bambini ai ristoranti, eravamo molto vicini al limite di sopportazione.

«Mi hanno seguito», ha detto Fran. «Erano quelli che c’erano sull’aereo e adesso sono qui. Lo fanno apposta». Ridacchiava sorniona, ma c’era qualcosa nel suo sguardo che faceva intuire che, sotto sotto, il sospetto di essere vittima di una cospirazione dei bambini per rovinarle cene, spostamenti e in generale esperienze vitali, ci fosse davvero.

Lontano da New York

Era in viaggio da circa un mese, lontana da Manhattan – che per lei è come dire sospesa in un limbo di non esistenza. Si preparava all’ultimo spettacolo di un lungo tour europeo, e soprattutto al volo di rientro. Quindi era felice. Stanca, ma felice.

«Cosa succede a New York quando lei non c’è?», le ha chiesto qualcuno. «Niente. Chiudono. Aspettano che io rientri per riprendere le attività». Le piace far credere di non funzionare fuori dalla sua città, proprio come la città non funzionerebbe senza di lei, ma non è proprio vero.

Fran è curiosa, sospettosa nel modo che hanno proprio i suoi bistrattati bambini di fronte a qualcosa di nuovo, e si nutre di novità con la stessa voracità, dettata dall’impazienza di poterle fare sue. Lontano dalla sua isola è nostalgica, è vero, ma non veramente un pesce fuor d’acqua. Piuttosto un pesce immerso in acque più fredde di quelle alle quali è abituato, che si lamenta della temperatura, ma è eccitato all’idea del brivido.

Nella stanza

Avevamo passato parecchio tempo nella sua stanza d’albergo a settare tutti i dispositivi elettronici in dotazione perché potesse usarli con riluttante facilità. Aveva scelto un hotel nel quale le luci si accendessero con un interruttore, non con un comando vocale o con uno sfioramento delle dita; in cui la chiave fosse una vera chiave, degna di una vera serratura; e in cui la targhetta “non disturbare” si appendesse alla maniglia, senza la necessità di attivare sistemi elettronici.

Però qualcosa da imparare c’era sempre: il televisore, per esempio. Voleva che rimanesse sempre sintonizzato su un canale di notizie per poter essere aggiornata su tutto ciò che le accadeva attorno e non perdersi mai uno spunto di conversazione – non tanto per lo spettacolo, quanto proprio per il piacere di avere qualcosa da dire a chiunque incontrasse. Si è fatta illustrare per filo e per segno il funzionamento del telecomando, lo ha provato cinque, sei, sette volte di seguito, ha verificato che tutto fosse a posto ed è passata oltre.

La cassetta di sicurezza si attivava facendo scorrere la carta di credito. Questo l’ha destabilizzata. Soprattutto perché funzionava con le carte di tutti i presenti tranne che con la sua, indipendentemente da quanta velocità e forza mettesse nel gesto. Dopo che ci eravamo salutati, dandoci appuntamento per una cena tra i bambini, aveva passato quasi tutto il resto del suo tempo in camera a cercare di esorcizzare la maledizione. Non ci era riuscita e, benché più volte le era stato detto che avrebbe potuto utilizzare il servizio alla reception, ne aveva fatto una questione di principio.

La tecnologia

«Secondo te Nureyev ha usato la cassaforte?», mi ha chiesto riferendosi al fatto che la camera nella quale alloggiava era la stessa in cui era solito dormire il ballerino. «Secondo me no, era un impaziente», si è risposta da sola.

Lo fa spesso: le domande le servono più che altro per esternare un’opinione della quale è già abbastanza convinta. Anche in questo caso, però, non si tratta di arroganza, ma di una strana voglia che ha di empatizzare con le persone e della stessa necessità di sentirsi compresa.

Il suo rapporto rovinoso con l’elettronica, che lei porta pubblicamente come un blasone, è allo stesso tempo uno degli argomenti per i quali avverte maggiore bisogno di comprensione. Per la maggior parte del tempo che passa fuori dal suo appartamento o della sua stanza, è circondata da un’umanità immersa fino al collo nell’automatismo elettronico e lei, per sua orgogliosa e impagabile volontà, ne è tegliata fuori.

Questo, che lo voglia o meno, è un limite che spesso sente la necessità di superare. E così quando con tenero imbarazzo chiede di vedere delle foto sul telefono senza ben sapere come farle scorrere, mentre il bambino di cinque anni legato a un passeggino decisamente fuori età gioca a un complicatissimo “punta e clicca”, lo fa borbottando delle scuse assolutamente non necessarie e schermando di ironia uno dei pochi momenti nei quali è veramente lontana dal sentirsi sicura di sé.

Indifesa, umana, per chi se lo chiedesse, abituato a vedersi dato in pasto il suo miscuglio di sfacciataggine sferzante e asciutta che ha modellato e coccolato da quando ha smesso di scrivere, 42 anni fa.

Intraducibile

Succede anche con la lingua. Come molti americani non parla che inglese, ma al contrario della maggior parte dei suoi connazionali se ne vergogna, si scusa, chiede e cerca di capire. Che sia per ordinare una scaloppina ai funghi o per informarsi su una maxi-retata ai danni di una cellula di Cosa Nostra della quale ha sentito parlare nel telegiornale del mattino, è tutto un «come si dice…?». E poi, anche se di rado lo dà a vedere, ne fa tesoro.

«Quando sono usciti i miei libri in America», mi ha raccontato mentre fumava fuori dal ristorante, «in Francia e in Italia hanno detto che sarebbero stati intraducibili». Le ho detto che probabilmente avevano ragione, ma che ci avrebbero dovuto provare comunque invece di lasciar passare così tanto tempo. Lei si è schermita e poi mi ha chiesto: «Fanno più ridere in inglese o in italiano?».

La risposta è ovvia, ma la sostanza sta nella domanda: quella che Guia Soncini definisce, per il giusto sollucchero del nuovo generone intellettuale, “la stronza venerabile” non si sarebbe mai nemmeno posta il problema.

Controllare il personaggio

Fran è diversa da Fran Lebowitz. Non sostanzialmente diversa: resta tutta d’un pezzo, una delle persone più convinte delle proprie opinioni al mondo, così affezionata alle ansie e alle fissazioni da mandarle sempre tre passi avanti a sé e causare preventivi esaurimenti nervosi al personale che sa che dovrà avere a che fare con lei; però diversa.

È molto più disposta ad ascoltare e a comprendere di quanto dà a vedere quando è sul palco o di fronte a una telecamera; molto più preoccupata per gli altri di quando, davanti all’imbarazzo di una persona che dal pubblico si inceppa facendole una domanda, risponde «I don’t care», per passare velocemente alla successiva.

Non rinuncia al personaggio, non è un costume che sveste quando esce di scena, ma in qualche modo lo tiene a bada. Sopito e rilassato per quando ci sarà bisogno di sfoggiarlo davanti a un pubblico famelico che non aspetta altro che di essere brutalizzato, tutto insieme o singolarmente.

Un brutale distacco

Ovunque vada, quello che ci si aspetta da lei è una sorta di brutale distacco dalle cose terrene; di pragmatismo ideologico; di mancanza totale di sentimentalismo. Eppure, Fran è una delle persone più emotive che mi sia mai capitato di conoscere. Solo che questa sua emotività la riserva per i momenti privati, anziché sbandierarla ai quattro venti.

La felicità assoluta di quando scopre una nuova libreria nella quale tuffarsi, del primo sguardo a un menù, di una nuova giacca su misura, superano di qualche lunghezza la pubblica lamentela per la coda di lettori incapaci alla cassa, per la sala piena di esseri umani di età inferiore ai 13 anni e per le ore immobili a farsi tagliare la stoffa addosso.

Una sala cinematografica con il film che sta per cominciare, preferibilmente quasi completamente vuota, vale un paio d’ore senza fumare. Passare del tempo con il suo amico “Marty” Scorsese, vale tutta la pena dei riflettori e delle telecamere.

Mezzi di trasporto

Prima di arrivare a Milano, per un disguido in aeroporto, ha dovuto spostarsi da Oslo a Copenaghen in auto, attraversando la natura quasi selvaggia della costa svedese. Per Lebowitz, notoriamente nemica di qualsiasi ambiente non completamente rivestito di cemento e abituata al traffico opprimente al volante della sua Checker bianca del 1962, un incubo; per Fran un sogno.

Dopo settimane di aerei scomodi, attese sconvenienti, autisti scorbutici e generica frenesia, la prospettiva di nove ore in auto con il suo manager e amico di tutta la vita e il marito, potendo sostare per pranzo senza dover contare sulle food court dei terminal, senza estranei sgraditi – soprattutto minorenni – e potendosi fermare a piacimento per una sigaretta, erano tutto quello che di meglio poteva sperare.

E ne raccontava con incantata gratitudine e lo stesso trasporto che deve aver riservato a chi per primo ha avuto la fortuna di sentire l’ormai classico pezzo sul miglior vicino di posto che si possa pregare di avere accanto durante un viaggio aereo. Per chi non avesse familiarità col repertorio: si tratta di un cadavere.

Un riflesso

Quello che le accade attorno diventa materiale da riproporre, ma non subito. Occorre il tempo per rielaborarlo, per somatizzarlo, per farselo entrare nel sistema. Per ripeterlo, ripeterlo, ripeterlo finché non raggiunge un grado di universalità tale da poterlo forzare praticamente in qualsiasi risposta.

Tutto quello che dice pubblicamente da quando ha deciso di inventare la professione della public speaker, dopo aver rinunciato definitivamente a quella della scrittrice, rimasta bloccata a metà di un romanzo che non vedrà mai la luce, è perfettamente calibrato per restituire la giusta dose di umorismo, saggezza e gravità.

Non c’è domanda tanto stupida da farle dare una risposta banale e non ne esistono di tanto ficcanti da destabilizzarla. Pubblicamente, Lebowitz è sempre pronta, perché Fran fa un incessante lavoro di raccolta ed elaborazione nel privato. Quello che porta sul palco o nelle interviste è un riflesso filtrato da ciò che il pubblico vuole da lei e che lei è ben contenta di servire infiorettato di irriverenza buona per i titoli a tutta pagina.

Vivere a Milano

Dopo la nostra cena minata di interferenze acustiche abbiamo passeggiato per Brera. Fumava e camminava piano, fermandosi spesso. Anche le sue sigarette sono diverse da come ce le si figurerebbe basandosi sulla sua immagine pubblica: spariscono subito in una sequenza di gesti meccanici successivi; la performance, l’atto artistico che ci si potrebbe immaginare vedendole nelle fotografie dove le tiene sapientemente, immancabilmente ed eternamente vicino alla bocca appartiene al personaggio, non alla persona.

I tacchi dei Charro più famosi della letteratura occidentale echeggiavano isolati e punteggiavano la sua voce roca.

«Milano è una bella città», ha detto guardandosi attorno. «Antica, dignitosa. Se non avessi alternative potrei anche viverci».

Io le ho risposto che detto da lei era un bel complimento, che avrebbero dovuto farci una placca commemorativa. «Meglio di no», ha fatto, «Mi rovinerebbe la piazza».

Vero, come se si sapesse che in realtà alcuni dei figli dei suoi amici più stretti la chiamano “zia” e che il tempo passato con loro per lei è preziosissimo.

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