La vita di Giambattista Vico, l’autore della Scienza Nuova, il filosofo dei corsi e ricorsi della storia si presta abbastanza bene a una narrazione accattivante e commovente, nello stile dei biopic dedicati ai geni dell’arte o della scienza. Non perché sia ricca di avvenimenti o di risvolti sentimentali, che anzi mancano del tutto: è sempre vissuto a Napoli, tranne un periodo in cui ha fatto il precettore dei figli di un nobile a Vatolla, nel Cilento, quindi a pochi chilometri da Napoli, si è sposato ed ha avuto una caterva di figli, ha insegnato all’università di Napoli fino alla morte o quasi (mettendo poi sulla sua cattedra il figlio Gennaro, corsi e ricorsi).
Ma perché Vico è, tra i filosofi, il prototipo perfetto del genio incompreso: poco letto e per niente capito ai suoi tempi, maltrattato dai contemporanei, relegato a insegnare una materia secondaria e mal pagata, la retorica, anziché una prestigiosa materia giuridica come avrebbe voluto, sempre alle prese con miseri stipendi, guai familiari, ricerca di soldi per stampare le sue opere, Vico dovette attendere quasi un secolo per essere scoperto e apprezzato, e nel Novecento è diventato, assieme a Giordano Bruno, il filosofo italiano probabilmente più noto al mondo.
E si sa che il racconto delle vite dei geni, nei libri o nei film, ha sempre bisogno che il genio in questione abbia qualche tara. Può andar bene una malattia incurabile, stile Hawking, o una propensione alla follia, stile van Gogh, o Ligabue, o un po’ di autismo, stile Nash o Helfgott. Se è un artista, è obbligatoria che sia stato un genio incompreso, disprezzato in vita, appunto come Ligabue o van Gogh. Per il filosofo, evidentemente, vale lo stesso.

Il cliché del genio incompreso

Marcello Veneziani, nel suo Vico dei Miracoli (Rizzoli, 2023), una biografia del filosofo, sfrutta appieno la ghiotta occasione, come spiega già il sottotitolo Vita tormentata del più grande pensatore italiano.
Lo fa bene, raccontando con verve e passione la cagionevole salute del poveretto (a sette anni cadde da una scala e fu a un passo dal morire, e il medico che lo visitò pronosticò che, se mai si fosse salvato, sarebbe rimasto offeso nel cervello), l’infanzia tra ristrettezze (il padre era un piccolo libraio), le disavventure universitarie (presentatosi a coprire una cattedra di diritto, gli venne fatto sapere che il prescelto era un altro, corsi e ricorsi), la composizione delle opere tra lo strepito dei figli e la moglie analfabeta, il peregrinare da una casa all’altra inseguito dalle morosità, l’affannosa ricerca di qualche protettore che gli pagasse la pubblicazione delle opere, l’accusa ricorrente di oscurità, il silenzio con cui furono accolte, in vita, tutte le sue opere, Scienza Nuova inclusa.

A onor del vero Veneziani non fa solo questo. Espone anche lo sviluppo delle idee di Vico, spiega con chiarezza gli aspetti fondamentali del suo pensiero, l’opposizione a Cartesio, la difesa del valore conoscitivo della poesia e della storia, l’intuizione sulla mancata esistenza storica di Omero, cent’anni prima che i filologi parlassero di questione omerica, la rivalutazione di Dante, la grandiosa visione della storia con i suoi corsi e ricorsi (ma Vico, veramente, parlava di ricorso, al singolare: il ricorrere della barbarie primitiva nel Medioevo).

Tutto chiaro e condivisibile. Forse non consiglierei il libro per un corso universitario su Vico ma a un liceale o a un esponente di quello che una volta si chiamava il pubblico colto lo raccomanderei senz’altro. Tutto bene, quindi? Mica tanto.  E non mi riferisco a qualche caduta vernacolare, all’uso ammiccante del dialetto napoletano, ai piccoli incipit da cantastorie. Nulla di male, bisogna pur vendere. 
C’è dell’altro. Nella foga di presentare un Vico difensore della tradizione, della famiglia e della religione, e insomma di recuperalo alla visione del mondo della destra attuale (di cui Veneziani è l’esponente più accreditato e preparato, sul piano filosofico), Venziani è costretto a parecchie forzature. E finisce per presentarci un Vico tutto casa e chiesa, pinzochero e bigotto, che non è certo l’aspetto per il quale Vico è stato riconosciuto, a partire dall’Ottocento, per il grande pensatore che certo fu, e probabilmente non è nemmeno il vero Vico.

Bigotto o eretico?

Intendiamoci: gli scritti di Vico sono pieni di salamelecchi alle autorità ecclesiastiche, di professioni di ortodossia cattolica, di tentativi di accreditarsi come la risposta cattolica ai teorici protestanti e alle loro teorie della società e del diritto. Ma vorrei vedere: nella Napoli dell’epoca, se poco poco finivi in odore non diciamo di eresia, ma di scarso zelo religioso, rischiavi il processo, come minimo la perdita della cattedra, e se ti andava male, come andò male al contemporaneo di Vico Pietro Giannone, teorizzatore della indipendenza del potere politico da quello religioso, ti aspettava l’esilio e la morte in carcere.
E Vico, tra l’altro, aveva qualcosa da farsi perdonare. Da giovane aveva frequentato un circolo di intellettuali napoletani, che erano finiti a processo come atei, seguaci del materialismo epicureo e lettori del De rerum natura di Lucrezio.
Non solo: Vico, da giovane, aveva scritto una poesia, Affetti di un disperato, che, come si capisce già dal titolo, non era proprio in linea con i dettami di santa madre chiesa e tradiva ad ogni passo il debito con il poema di Lucrezio, che denunciava i mali indotti dalla religione nel mondo.

Veneziani non può negarlo, e allora che fa? Spiega la poesia con una delusione d’amore che Vico avrebbe provato per la figlia del nobile che lo aveva preso come precettore: una storia, si badi, che è solo una diceria, non essendoci nessun documento che la sorregga, ma che gli sembra trapassi, per Vico, nell’impulso “naturale e divino” a generare una famiglia (naturalmente non queer) «tramite il legame nuziale e la procreazione».

Forzature

Ma, a parte queste forzature, la questione è ben più sostanziale. La discussione sui rapporti tra la filosofia di Vico e il cattolicesimo ha occupato buona parte delle interpretazioni di Vico nel Novecento, perché Vico è tornato a circolare soprattutto grazie alla lettura che ne fece Croce (e Gentile), e in quella interpretazione il sottofondo cattolico di Vico era fortemente ridimensionato, anzi negato del tutto.

Si sviluppò così una contro-lettura di preti e frati tutti intesi a dimostrare l’ortodossia di Vico, una letteratura un po’ untuosa con la quale purtroppo il libro di Veneziani mostra una certa continuità. Gli studi successivi hanno un po’ sfumato le opinioni, ma resta un punto difficilmente controvertibile. Per Vico all’origine dell’umanità non ci sono Adamo ed Eva, creati da Dio, ma ci sono i bestioni: esseri immani, privi di linguaggio e di intelletto, che gradualmente cominciano a civilizzarsi.
E si civilizzano, sì, grazie alla religione e al mito (come del resto conferma l’antropologia odierna), ma grazie a qualsiasi religione. Certo, Vico deve salvare l’ortodossia e quindi eccettua dallo stadio ferino il popolo ebraico e colloca i bestioni dopo il diluvio (mica può far saltare la cronologia biblica).
Ben poco cattolico, e poco cristiano modo di vedere, al punto che nel 1768 un ecclesiastico si sentì in dovere di scrivere una difesa delle Scritture contro Giambattista Vico, e una Apologia del genere umano accusato di essere stato una volta bestia. Veneziani insiste sul fatto che Vico vede in opera nella storia la Provvidenza, ma, lasciando andare che la Provvidenza di Vico è poco più della razionalità immanente nella storia (come disse Gentile), è sorprendente che questo teorico della provvidenza divina non citi mai, nella Scienza Nuova, Gesù Cristo, e mai il ruolo del cristianesimo nella storia.

Certo, Vico non arrivò a teorizzare la separazione di stato e chiesa, come fece Giannone, al quale caro costò. E veramente dispiace che Veneziani, nel confronto tra i due, non rinunci a dare a Giannone il calcio dell’asino. Accusandolo di essersi arricchito con la professione forense (ma è forse una colpa?), di aver scritto la Storia civile del Regno di Napoli in una bella villa a Posillipo, di aver copiato altri nei suoi scritti (accusa velenosa che per la verità gli rivolse anche il cattolico Manzoni), perfino di aver sotterraneamente contribuito a una stroncatura di Vico. Non molto generoso per uno che è morto in carcere per le sue idee.

Più generosi di lui i rivoluzionari napoletani che, nel 1799, ribattezzarono la villa dove Giannone aveva vissuto a Napoli, in suo onore, “colle Giannone”, e videro in lui un araldo della libertà di pensiero e di religione. Evidentemente Veneziani sta invece dalla parte dei suoi aguzzini, e rimpiange un mondo dove la religione aveva un ruolo più simile a quello che riveste nell’Iran di oggi che a quello che dovrebbe rivestire in un paese libero.


Vico dei miracoli. Vita oscura e tormentata del più grande pensatore italiano (Rizzoli 2023, pp. 240, euro 20) è un libro di Marcello Veneziani

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