Autunno 1973, Padova, Ufficio istruzione del Tribunale. Giovanni Tamburino, uno dei due magistrati che lo compongono, è al suo primo incarico. Lo convoca l’altro, il capo, che gli dice: «La Procura sta per formalizzare un processo complicato. Se lo tengo io tu dovresti fare il dirigente dell’ufficio. Lo assegno a te».

E così, qualche giorno dopo, sulla scrivania di Tamburino piomba una dozzina di faldoni, per imputazioni di associazione sovversiva. Dentro ci sono documenti sequestrati soprattutto in Toscana, nella zona al confine con la Liguria, e a La Spezia. E poi il risultato di indagini della Procura di Padova, dove gravita buona parte degli imputati. Tra loro tale Eugenio Rizzato, un passato di assassino di partigiani, che subito si avvale della facoltà di non rispondere, senza dunque nulla svelare di quel blocco di fogli con circa 1.500 nomi di politici, giornalisti, sindacalisti scritti di suo pugno, accomunati da una caratteristica: erano tutti di sinistra.

Un nido di rettili

Di quella lista, nel 1969, tra una bomba e l’altra era venuto in possesso pure l’Ufficio politico della Questura di Padova, senza che alcuna indagine fosse poi seguita. Tamburino convoca allora il commissario Saverio Molino, che balbettando non sa darne spiegazione. Risultato: rapporto alla Procura per falsa testimonianza e favoreggiamento personale.

Poco o nulla di utile dice a Tamburino pure Roberto Cavallaro, un giovane veronese ex sindacalista della Cisnal, che si era spacciato per magistrato militare. Per verificare la veridicità delle sue scarne dichiarazioni, il magistrato convoca allora un altro giovane, citato da Cavallaro a proposito di un episodio marginale.

Il teste dapprima non si presenta, quindi Tamburino ricorre all’accompagnamento coatto da parte dei carabinieri. Ma nell’interrogatorio il giovane svicola, si agita. Il giudice lo invita a riflettere, perché così rischia l’arresto. E approfittando di una pausa questo giovane si getta improvvisamente contro una finestra. Soccorsi, ambulanza, fine dell’interrogatorio. E Tamburino si chiede: «Non è che senza accorgermene sto ficcando le dita in un nido di rettili?».

Dietro tutte le trame

Se leggerete Dietro tutte le trame (sottotitolo: Gianfranco Alliata e le origini della strategia della tensione), pubblicato di recente da Donzelli, non riuscirete a staccarvene finché non arriverete all’ultima pagina.

Per due ragioni: l’oggetto, che è l’inchiesta dello stesso Tamburino sulla Rosa dei venti e il relativo tentato golpe, inchiesta incagliatasi nel “porto delle nebbie” della Procura romana come spesso accadeva allora: una messe di dettagli mai venuti alla luce che danno pienamente la misura delle dimensioni della cospirazione; poi lo stile dell’autore, sorprendentemente asciutto anche nel raccontare i tanti ostacoli che gli vennero frapposti, anche a rischio della sua incolumità personale.

Ci sarebbe in realtà anche un terzo motivo, forse il principale, che emerge nel sottotitolo citato: appunto il principe Giovanni Francesco Alliata di Montereale, oggetto anche di una scrupolosa cronologia e biografia a cura del ricercatore Maurizio Massignan, complemento imprescindibile dello “scavo” di Tamburino, che risale all’origine della lunga scia di sangue e misteri dell’Italia repubblicana: Portella della Ginestra. E dunque la figura di Alliata, mai investigata a fondo.

Una luce nuova

Amos Spiazzi, Licio Gelli e Michele Sindona, il principe Junio Valerio Borghese, Miceli e Maletti, l’industriale Piaggio e il suo braccio destro Lercari, Freda e Ventura, l’ineffabile Dario Zagolin la cui auto risultò parcheggiata nei pressi di piazza Fontana alla vigilia della strage…

Il rosario di nomi (ma ce ne sono tanti altri) che Tamburino sgrana nel libro consente di allacciare tra loro fili a lungo rimasti sospesi nel vuoto, che però ora il fondamentale lavoro di digitalizzazione di milioni di documenti di vicende giudiziarie apparentemente distanti (oltre che portate avanti in sedi giudiziarie diverse) rende possibile strappare dalla dimensione di groviglio inestricabile, riportandoli a quella di matassa, certo ancora da ricomporre per intero ma finalmente con gli strumenti per poterlo fare. O almeno per provarci.

E da questo punto di vista il lavoro di Tamburino è un tassello inatteso e ricchissimo, perché getta finalmente sulla Rosa dei venti una luce che si attendeva da tempo: sempre troppo poco infatti finora ne è stato scritto.

La pistola sotto al cuscino

Che l’inchiesta del giudice padovano fosse “pericolosa”, diciamo così, per il rilievo dei livelli politici che rischiava di toccare e l’ampiezza del complotto che stava scoperchiando, lo dimostrano le attenzioni di cui fu oggetto lo stesso Tamburino fin dall’inizio della sua istruttoria.

Ad esempio, quel dettaglio apparentemente innocente sulla sua automobile ma chissà perché riportato in una cronaca, che però consentì a qualcuno nottetempo di ricoprirla di croci celtiche e asce bipenni, il lugubre simbolo di Ordine nuovo.

Poi, dal 1974 (l’anno terribile di piazza della Loggia e dell’Italicus), attacchi sempre più duri dalla stampa di destra e strane presenze sulla scale del condominio in cui il magistrato abitava (un malavitoso di fede politica nera: della serie “sappiamo dove e come raggiungerti”…). Tanto che Tamburino, con in casa moglie e figlioletta, si costrinse ad acquistare una pistola, tenendola per mesi sotto il cuscino mentre dormiva.

Attentati

Il filo della Rosa dei venti avrebbe potuto portare lontano. Partendo da quel cifrario militare segreto in possesso dei cospiratori e proveniente da un reparto di artiglieria di Montorio Veronese, inserito nella struttura difensiva Nato e comandato dal maggiore (poi colonnello, poi generale) Amos Spiazzi.

Che venne arrestato. Il racconto di Tamburino dei propri faccia a faccia con l’alto ufficiale sono il racconto di una partita a scacchi. Si apprende tra l’altro, per chi lo aveva dimenticato, della deposizione di una recluta di quel reparto di artiglieria, il trentino Enzo Ferro: che all’indomani dell’arresto di Spiazzi (12 gennaio 1974) si precipitò dai Carabinieri di Trento per raccontare che Spiazzi lo aveva sollecitato ad aderire alla Rosa dei venti e che, se avesse realizzato a Trento attentati per farne ricadere la colpa sulla sinistra, sarebbe stato ben pagato.

Il brigadiere del Radiomobile che lo ascoltò gli consigliò però di tenere tutto per sé, sennò lo avrebbero fatto passare per pazzo. Davanti al giudice istruttore di Trento, Ferro avrebbe poi aggiunto che uno degli ordigni messi a disposizione da Spiazzi era destinato a un treno proveniente dal Brennero, per esplodere alla stazione di Bologna. Era il 1977. E tutti sapete che cosa sarebbe accaduto il 2 agosto di tre anni dopo.

Un sentore di massoneria

Capitolo Alliata. Tamburino lo incrociò nel corso dell’inchiesta, quando il generale Francesco Nardella, a capo dell’Ufficio guerra psicologica istituito al comando Nato di Verona, durante un interrogatorio gliene parlò così: un siciliano misterioso e notturno, avvolto in un mantello nerissimo come la sua chioma, che emanava un forte sentore di massoneria ma anche di altro più inquietante, per via della sua provenienza palermitana.

Principe del Sacro Romano Impero più altri 27 epiteti nobiliari e cavallereschi (Ordine templare compreso), ma stando al suo biografo ufficiale di discendenza addirittura da ricollegare a una non meglio identificata divinità greco-cretese, il 5 novembre 1974 Alliata fu anche oggetto di un mandato di cattura emesso da Tamburino, mai eseguito perché nel frattempo aveva pensato bene di svernare a Malta, in una delle sue tante residenze, poi la Cassazione strappò il procedimento a Tamburino e Roma revocò ben presto l’ordine di arresto «per insufficienza di indizi».

L’approfondimento su di lui che Tamburino non poté svolgere in sede giudiziaria arriva oggi, quasi quarant’anni dopo, in questo libro. E c’è letteralmente da saltare sulla sedia.

Il capitolo finale del libro, Dalla Rosa dei venti a Portella della Ginestra, si chiude infatti con un’incalzante serie di asserzioni conclusive, frutto di meticolose ricerche anche nel Fondo Alliata riversato all’Archivio storico della Camera dai familiari del principe, dopo la sua morte avvenuta il 20 giugno 1994.

Documentazione «certamente espurgata dallo stesso Alliata o da chi la conferì, né poteva essere altrimenti – scrive Tamburino – tuttavia si è rivelata una miniera di informazioni che hanno aperto una “finestra grigia” che rappresenta il tessuto connettivo dove avviene l’interscambio tra il sangue della realtà criminale e l’ossigeno inalato dal mondo visibile e legalmente indenne».

E dunque, senza dimenticare il dato dell’appartenenza massonica di Alliata tale da sopravanzare Gelli (deputato monarchico tra il 1958 e il 1963, si iscrisse alla P2 nel 1973 lasciandola tre anni dopo), Tamburino non si spinge ad assegnargli il ruolo di mandante dell’eccidio del 1° maggio 1947 compiuto dalla banda di Salvatore Giuliano.

Ma ci va davvero molto vicino: «La documentazione del Fondo Alliata e la storia del principe successiva sia alla strage del 1947 sia alla vicenda del 1974 aggiungono elementi coerenti con quella deduzione».

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