Quando le Brigate rosse rapirono e uccisero Roberto Peci, nell’estate del 1981, Mario Di Vito non era ancora nato. Oggi ha 32 anni ed è giornalista, al manifesto. Ma quella terribile storia lo ha sempre circondato, visto che è nato proprio a San Benedetto del Tronto, la città dei Peci: Patrizio, il primo pentito delle Br con le cui rivelazioni iniziò la fine del partito armato, e appunto il fratello Roberto, condannato a morte in una “prigione del popolo”. La vendetta contro i familiari di un collaboratore di giustizia: un delitto che assimilò le Br a Cosa nostra, altro che sogni di rivoluzione. Con una scena che testimoniò plasticamente la conclusione della parabola.

Lunedì 28 luglio 1986, al processo nell’aula bunker del carcere di Ascoli per l’assassinio di Roberto, al banco dei testimoni fu appunto il turno del fratello Patrizio. Giovanni Senzani, il capo delle Br ideatore del sequestro, non aspettava altro: «Presidente, chiedo la parola», disse, prima ancora che il teste si fosse seduto. E fu allora che Patrizio si girò verso la gabbia degli imputati, trattenuto a stento dai carabinieri: «Ma che cazzo vuoi, mafioso? Ti vorrei tra le mani… Due secondi tu e due minuti tua moglie. Ti ammazzo! Ti ammazzo!». E i brigatisti: «Bastardo! Infame! Vi ammazziamo tutti! Tutti!».

Di Vito riprende oggi in mano i fili di quella vicenda a suo modo epocale degli anni di piombo. Lo fa in Colpirne uno. Ritratto di famiglia con Brigate rosse pubblicato da Editori Laterza, libro che sta al crocevia di più generi: inchiesta giornalistica, saggio storico, romanzo, memoir. Tant’è che mancano note e indice dei nomi, a confermare la propensione narrativa più che scientifica, ma non pensiate a uno studio delle fonti solo essenziale o, peggio, frettoloso: nella ricostruzione dei fatti (la cronaca, il contesto, il processo) l’autore all’approssimazione non concede nulla, aggiungendovi invece un gusto del racconto davvero raro.

E oggi spiega: «Mi è sembrato l’unico modo attraverso il quale sarei riuscito a scrivere questa storia, che in parte è pubblica e in parte è privata, e che comunque si svolge in un periodo in cui non ero nemmeno nato. Diciamo che, in fin dei conti, questo libro è un tentativo di rispondere alla domanda su che cosa resta degli anni del terrorismo oggi e su che cosa riesce a vederci una persona di trent’anni o poco più».

Racconto fra generazioni

La doppia domanda è opportuna, in giorni come questi in cui la dimensione temporale del passato che non passa è stata riproposta dalla decisione della Corte d’appello di Parigi di non estradare dieci ex terroristi da tempo rifugiati oltralpe. Una vicenda infinita, ora destinata ad allungarsi ancora con l’impugnazione della sentenza da parte della Procura generale francese in Cassazione, accogliendo di fatto il desiderio del presidente Macron.

Al di là delle sottigliezze giuridiche e del dibattito sulla “dottrina Mitterrand”, ovvero dell’asilo che la Francia ha a lungo garantito ai condannati per reati politici purché dissociati dalla lotta armata, il tema è quello di sempre: dopo tanti anni, e in una fase storica completamente diversa rispetto ai reati che hanno commesso, ha senso portare in carcere i reduci di quella lontana stagione? Oppure, dall’altro lato: è giusto che non scontino le pene alle quali sono stati condannati in nome del popolo italiano?

Lo stesso Di Vito in questi giorni ne ha scritto, affermando che il punto politico della questione era appunto il superamento finale della cosiddetta dottrina Mitterrand.

E la sentenza della Corte d’appello di Parigi, in effetti, ha segnato un superamento di quella linea, ma non come alcuni si aspettavano in Italia: «Se qui il nostro governo e la maggioranza delle forze parlamentari auspicavano un rimpatrio dei dieci latitanti, in Francia la giustizia ha deciso di negare l’estradizione citando la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, di fatto innalzando certi princìpi a un livello superiore. In sostanza, a finire tritato è il sistema italiano: a Parigi ritengono assurdo perseguitare persone a decenni dai fatti che li vedono coinvolti e, soprattutto, prive di alcuna pericolosità sociale, dal momento che non compiono reati di alcun genere ormai da tempo immemore».

Il passato insomma è passato eccome. E lo dimostra proprio questo singolare libro. O meglio: il profilo dello stesso autore. Se a lungo gli anni di piombo sono stati raccontati dai loro protagonisti (non si contano i libri di memorie degli ex terroristi rossi) o da giornalisti e storici loro contemporanei, poi è toccato farlo alla generazione successiva, quella dei figli (per lo più delle loro vittime: Calabresi, Tobagi, Rossa, ma anche Anna Negri, figlia di Toni, leader di Autonomia Operaia). Oggi però il testimone è passato a un’altra generazione ancora, quella successiva: Mario Di Vito è infatti il nipote di chi, a quel processo di Ascoli, sostenne la pubblica accusa contro Senzani e gli altri brigatisti.

Si chiamava Mario Mandrelli, era sostituto procuratore (ma della Procura divenne poi il capo, fino a quando andò in pensione nel 2000), viveva proprio a San Benedetto del Tronto, dove è morto nel 2007. Un giorno, a casa della nonna, Di Vito ritrovò diari, appunti e documenti dell’epoca. Carte già ingiallite di un altro secolo, certo, che restituivano però il backstage intimo di una storia di suo già enorme. Che quindi ancor più diventava tale. Figuratevi se messe in mano a un giornalista il cui nome di battesimo è lo stesso del nonno, per una ragione che qui non si svela e che costituisce una storia nella storia.

Il sequestro di Roberto Peci, tanto per iniziare, avvenne infatti quando le Brigate Rosse già “detenevano” tre prigionieri: l’assessore regionale campano della Dc Ciro Cirillo, il dirigente del Petrolchimico di Marghera Giuseppe Taliercio e quello dell’Alfa Romeo di Milano Renzo Sandrucci. Pochi mesi dopo, in dicembre, sarebbe toccato anche al generale statunitense James Lee Dozier.

E nelle settimane del rapimento del giovane marchigiano, si assistette a uno stillicidio di comunicati brigatisti che, fin dall’inizio, lasciavano presagire come la vicenda si sarebbe conclusa. Il “processo” venne anche filmato e il video diffuso a stampa e televisione: un documento agghiacciante, con Roberto Peci costretto di fatto ad assecondare le accuse brigatiste al fratello, ad accusarlo lui stesso e, infine, a dirsi pronto ad accettare il verdetto dei “compagni”. Con la pronuncia della condanna a morte accompagnata dalle note de L’Internazionale.

Tutto passa

Fu un’idea di Senzani, il cui sfruttamento dei meccanismi mediatici era già emerso in occasione di un altro precedente sequestro, quello del magistrato Giovanni D’Urso, con la richiesta-ricatto alla stampa di pubblicare i documenti brigatisti, altrimenti l’ostaggio sarebbe stato ucciso: e il no da parte della maggior parte delle testate aprì un durissimo dibattito. Tanto che i familiari del magistrato riuscirono a “bucare” il silenzio stampa solo grazie agli spazi televisivi che il Partito radicale mise loro a disposizione a scopo umanitario, con la figlia che in una tribuna politica si ritrovò a leggere uno di quei comunicati in cui il padre era definito «boia». E poi appunto lo specifico caso di Patrizio Peci, con l’ipotesi di un doppio arresto da parte dei carabinieri di Dalla Chiesa (mai provata), che lo avrebbe inizialmente liberato per consentirgli di raccogliere altre informazioni sui brigatisti.

Già tutto questo basterebbe per un film, anzi, per una serie tv. Aggiungetevi lo spaccato familiare del magistrato Mandrelli, dalla fama di autentico duro, ma in realtà uomo di sinistra moderata, pronto anche a comprendere le regioni ultime del sogno rivoluzionario brigatista. E attorno a lui la moglie, i figli (nel racconto soprattutto le figlie, una delle quali è appunto la madre dell’autore), la dimensione familiare in una piccola abitazione fronte mare, autentica passione dell’uomo Mandrelli. Le “stanze di vita quotidiana” sono intense e commoventi e costituiscono lo scenario in cui si inscrive la tragedia di Roberto Peci.

Nel finale, Mario Di Vito rivela di aver sentito il nonno parlare di Roberto Peci una sola volta, quando aveva quindici anni, assistendo a un suo dialogo a bassa voce con un avvocato. Disse il magistrato Mandrelli: «Abbiamo fatto tutto il possibile, e alla fine li abbiamo fatti condannare tutti per quello che hanno fatto. Solo una cosa continuo a chiedermi: quanto era davvero impossibile evitare la sua morte?».

Era impossibile, afferma oggi l’autore. Che, a proposito del passato che non passa, chiude il libro in maniera magistrale: «A un certo punto passa tutto. I ricordi, i dispiaceri, i pericoli, la normalità, gli amici, i nemici, i bambini che diventano adulti, gli adulti che diventano cenere. Come Mario, morto l’11 marzo del 2007, divenuto polvere e messo in un’urna sistemata su uno scaffale in modo che possa guardare il mare di fronte. Per sorvegliarlo. Per farsi sorvegliare».

 

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