Il gelato a Roma è rito, identità, piacere e conflitto. Più che una guida, un tentativo di mappare sentimenti (e gusti) di una città
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola da sabato 26 luglio.
Partiamo da una premessa. Nessuno sarà contento di ciò che sto per scrivere, nessuno, compreso chi scrive, si lascerà mai dire che la sua gelateria di riferimento non è la migliore di Roma. Le ragioni per cui non esiste una guida del tutto soddisfacente al miglior gelato della capitale sono diverse: la più immediata, e di tipo materiale, è che a Roma ci sono tantissime gelaterie, tutte molto buone.
Tante gelaterie significa tanta offerta, tanta offerta significa tanta competizione, o come direbbero a Milano, che di cibo ne offre molto e vario ma sui gelati proprio non c’è confronto, il benchmark è alto.
La seconda ragione per cui un discorso imparziale e lucido sul gelato è impossibile va attribuita alla natura emotiva del suo consumo. Il gelato, più che un alimento, è uno stato mentale, come l’aperitivo o la sigaretta. Il gelato è il corrispettivo semi-solido del caffè, una scusa per vedersi, una ragione per fare due passi, un argomento di conversazione che unisce e separa. È la reificazione del senso di piacere che nasce a scuola con la ricreazione e ci portiamo appresso per tutta la vita, trasformata nella sintesi fredda di ogni sapore che abbiamo in mente.
Insomma, il lungo preambolo serviva sì a mettere le mani avanti, ma anche a suggerire che la natura di questa ricostruzione antropologica parte dallo stesso presupposto dei Tristi tropici. «Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni», diceva Lévi-Strauss, odio le competizioni e le tifoserie, soprattutto quando riguardano il cibo, forse perché cresciuta all’ombra del grande ed estenuante conflitto sul genere dell’arancino, o arancina, eppure eccomi qua, a tentare di mettere insieme pezzi di cialda e tipi umani. Vogliamoci bene, dunque, e diamo per assodato che ogni scusa è buona per un gelato, e ogni gelato è bello a modo suo.
Quando il gelato racconta la città
E per cominciare un viaggio nei sentimenti senza Filippo Bisciglia ma con un bel falò di confronto tra l’ampia offerta di un solo quartiere capitolino, forse ha senso partire dall’area che circonda due punti nevralgici della città, Termini e Sapienza. Qui troviamo il grande Palazzo del Freddo, che più che una gelateria sembra un posto da assediare durante una rivoluzione, eredità ottocentesca con fascino giolittiano – attenzione, al Giolitti gelataio ci arriveremo più avanti – ora di proprietà coreana.
Da Fassi ci trovi orde di turisti e famiglie democratiche che frequentano laboratori di capoeira a Piazza Vittorio, registi e attori che abitano l’Esquilino e ciclisti improvvisati della domenica, ma soprattutto, ci trovi i sampietrini. Tralasciando l’offerta del gelato sfuso, «è un gelato popolare, tanto latte, tanto zucchero» disse un mio caro amico durante una cena animata dall’ennesima discussione sul miglior gelato romano, Fassi spicca per i suoi pezzi storici, monoporzioni con la forma delle pietre che compongono il proverbiale manto dissestato della capitale, in altre parole, la gelateria perfetta per il sindaco.
Superando il confine delle rotaie di Termini, San Lorenzo converte in gelato ciò che ospita dal punto di vista umano: studenti, turisti e vecchi sanlorenzini duri e puri. GranGel vince il premio sorbetti e attira a sé la coda dei bambini che escono da scuola, il pistacchio salato delle sorelle Marani è gusto d’artista, come del resto lo è la loro location avvolta dai rampicanti e sede di lunghi caffè politici, mentre gelato San Lorenzo è rito post-esame in sessione estiva, gusto biscotto romano per chi ha molto da festeggiare o mandorla senza zucchero per chi invece deve punirsi con la morigeratezza.
A proposito di gusti interessanti. Al Settimo Gelo, a un passo dalla famosa Via Asiago da cui Fiorello trasmetteva all’alba prima di essere esiliato al Foro Italico, si ritrova una discreta porzione di dipendenti della radio Rai, ben diversi da quelli della tv. Siamo in Prati, come dicono gli abitanti del quartiere del papa e della televisione di stato, e in questa gelateria dove si può acquistare la nocciola «tonda e gentile» citata da Moretti in Il sol dell’avvenire c’è tanto da esplorare.
Zenzero, cardamomo, melograno, cachi, il frequentatore di questa gelateria non ha paura di mostrare sul suo cono un mix di orgoglio radical e romanordismo moderato. La versione campo largo di Settimo Gelo potremmo individuarla nei Gracchi, che pure offre una scelta di nicchia, come il suo tanto strepitoso quanto salutare gusto mela e cannella, ma sa anche dialogare con la massa.
Anche se, parlando di trasversalità, niente batte la gelateria La Romana di via Venti Settembre che non molti anni fa ebbe tra i suoi ospiti illustri niente meno che il Cavaliere in persona, a riprova della sua offerta densa di libertà.
C’è chi sostiene che una buona guida dei gelati romani dovrebbe dividersi per gusti, una mappa del limone, una cartina della stracciatella. Se vogliamo ragionare in questo modo, non si può non citare lo zabaione di Giolitti a Testaccio, anche detto il vero Giolitti, mica come quello del centro che serve più a far fare le foto agli americani con le infradito che a offrire un gelato degno di questo nome. I
l pistacchio di Petrini, in zona Furio Camillo, la meringa di San Crispino, che un tempo si preservava dall’attacco della turistificazione del centro con una sede in via Magna Grecia, questi spunti di scelta verticale di solito vengono fuori nel momento della diatriba sul gelato in cui tocca difendere il primato della conoscenza specifica, monografica potremmo dire, il particolare che vince sul generale.
Se gelato vuol dire estate, estate vuol dire anche cinema all’aperto, e dagli schermi di piazza San Cosimato, dove il Piccolo America organizza il suo consueto giro di cinefilia en plein air, parte il flusso di gelatisti post-visione. Otaleg!, che può ingannare per la sua frequentazione poco trasteverina e molto johncabotina, offre sorprese e qualità – gusto ciliegia, consiglio personale – e Fatamorgana, che ha un’atmosfera più virziniana, dove ti aspetteresti di trovarci Silvio Orlando in fila per una coppetta acerola e alkekengi con la mise di Ferie d’agosto.
L’Aventino si difende con una sede di Torcè, schiacciata tra la poesia di San Saba e l’istituzione della Fao, ma il vero quartiere-stato di Roma è Monteverde, dove la Gourmandise offre ristoro al re del gelatismo capitolino, il già citato Moretti che sulle sue nevrosi e sulla sua golosità ha fondato una filmografia, con la consueta dose di elitarismo che la zona più irraggiungibile e mal collegata di Roma possa offrire: lunga la fila, ma ghiotte le chiacchiere che si possono ascoltare mentre si aspetta, tra un approfondimento sullo stato di avanzamento dei lavori del villino in comproprietà al Circeo e un profilo psicologico del killer di Villa Pamphili. Perché come diceva qualcuno su un sito di aforismi, l’attesa del piacere è essa stessa il piacere, meglio ancora se con ingredienti biologici e panna gratis.
Come abbondantemente anticipato, questo dolce tour tra gusti eccentrici e grandi classici non poteva che finire con un lunghissimo elenco di esclusi, un po’ come la zuppa inglese dall’offerta contemporanea. C’è Fattori al Pigneto, che ti mette assieme la classe creativa della città e le nonne pasoliniane con nipotini al seguito, c’è Gori a Montesacro, c’è Pico a un passo da Villa Mirafiori, Neve di Latte, Gelateria del Teatro.
C’è il gelataio che non ti dispone i gusti nell’ordine che gli hai indicato, quello che ti fa assaggiare col cucchiaino il gusto origano per farti usare aggettivi di circostanza come il democristiano «particolare», quello che ti fa pagare palla per palla e quello che se ne frega dell’austerity e ci va giù con la paletta neanche fosse una confezione di Cart d’Or.
C’è, in buona sostanza, un universo di gelati e questo universo vive nella galassia romana, che avrà tanti problemi e poche soluzioni, ma almeno quando si parla di prendersi un cono per evadere da quella che qualcuno ha definito staycation per non chiamarla maledizione dell’estate in città con il riscaldamento globale ti fa sentire al centro del mondo.
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