Dalla bistecca alla Hummer: come il consumo di carne è diventato un’arma culturale di affermazione maschile e di controllo simbolico sui corpi vulnerabili
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola da sabato 26 luglio.
Nel 2006, accendendo la televisione in qualsiasi casa americana, era molto probabile imbattersi – una, dieci, cento volte – in uno spot pubblicitario della Hummer H3. Nulla di nuovo sul fronte delle società dei consumi. Il contenuto, però, è interessante. Uno spot di trenta secondi mostra un uomo in fila al supermercato: deve pagare una confezione di tofu. Dietro di lui un altro uomo lo guarda con compatimento e leggero disprezzo.
La camera inquadra la grande pila di carne rossa che il secondo si appresta a portare a casa, magari per uno di quei barbecue dove mariti a petto nudo grigliano bistecche mentre le mogli apparecchiano e tagliano verdure. Il ragazzo del tofu si imbarazza, si stringe nelle spalle, si sente, suggerisce silenziosamente la pubblicità, meno uomo. Umiliato esce dal supermercato e corre in un concessionario a comprare una Hummer dal motore ruggente. A questo punto compare lo slogan: “Restore Your Manhood” – ristabilisci la tua mascolinità.
Lo spot si inscrive perfettamente nella retorica che collega la carne – e, per estensione, i simboli culturali della forza e dell’aggressività, come i Suv – alla virilità, suggerendo che basti un gesto di consumo per sanare una ferita narcisistica.
Comprare un’auto mastodontica, nata in contesto militare, non è un atto pratico o razionale, ma un atto di restaurazione del sé maschile: un’operazione di ricostruzione dell’identità tramite il possesso di qualcosa di grande, rumoroso, forte, nella speranza che, come è in grado di fare un’abbuffata di manzo, qualcosa di esteriore dia forma a una solidità interiore, garantisca un ruolo rilevante nella piramide di potere che regge le relazioni sociali. Il tofu, al contrario, è l’alimento-simbolo delle scelte alimentari associate alla cultura vegetariana o vegana. Ridicolizzato, diventa qui il segno di una mascolinità sconfitta, non attraente.
Che il consumo di carne sia un dispositivo di affermazione della mascolinità, è qualcosa che abita il nostro inconscio, qualcosa che ci è stato trasmesso non solo dalla pubblicità o dalla cultura pop più recente, ma da secoli e secoli di caccia, appunto. Secoli e secoli di penuria alimentare, anche. Secoli e secoli di uomini che lavoravano con il proprio corpo e donne che lavoravano in casa e con i figli, senza riconoscimento. La fetta di carne, se c’era, era per l’uomo. Se c’era per tutti, andava all’uomo quella più grande.
E allora ecco che non sorprendono pubblicazioni di ricettari come quello di Esquire, dal titolo Eat like a man - the only cookbook a Man will ever need, dove sulla copertina troneggia una bisteccona al sangue.
Oppure le campagne pubblicitarie delle catene di fast food americane, come quella di Burger King, sempre del 2006, intitolata “Manthem”, un ridicolo inno alla virilità carnivora: al centro dello spot, un uomo che si ribella al “cibo da donne” – insalate, stuzzicherie e porzioni minuscole – per addentare con orgoglio un grande hamburger. Il superuomo marcia con altri del suo genere per la città, sulle note di una parodia del brano “I Am Woman”, distruggendo tavoli di ristoranti chic e lanciando insalate in aria, mentre lo slogan finale proclama: “Eat like a man, man”.
La carne non è solo cibo, non è solo proteina o nutrimento: è arma di rivendicazione identitaria, antidoto alla presunta femminilizzazione dell’uomo moderno.
E anche quando il soggetto è qualcuno dal pensiero un po’ più raffinato di un maschio texano che grida di essere un uomo sventolando un panino con la carne, anche cioè quando si mette in discussione questa associazione uomo-carne, i racconti di regimi alimentari plant-based rivolti agli uomini, sono pieni di allusioni alla forza o all’eroismo per compensare l’assenza di carne. “Vegan bodybuilder”, “Plant-powered warrior”, “Real men eat plants”: mangio legumi ma sono ancora forte come Hercules.
Un mantra che serve a dire che anche se non si addentano braciole e salsicce, anche se non si ordina la tagliata al ristorante, si può continuare ad essere maschi.
La scienza si è interrogata sul perché il consumo di carne sia, anche, una questione di genere. Una ricerca accademica intitolata Masculinity, Meat, and Veganism ha evidenziato come gli uomini, rispetto alle donne, mostrino una minore attivazione delle aree cerebrali legate all’empatia quando assistono alla sofferenza di animali o esseri umani.
Secondo questo studio, il consumo di carne si intreccia a modelli di mascolinità normativa, secondo cui «i veri uomini mangiano carne», e qualsiasi scelta alimentare che si discosti da questa norma viene vissuta statisticamente spesso come una minaccia alla virilità.
Non sorprende, dunque, che molti uomini considerino un pasto vegetariano o vegano «non completo» o addirittura «femminile», né che nutrano opinioni più negative verso chi sceglie di non mangiare carne – soprattutto se si tratta di altri uomini, percepiti come una versione difettosa del vero maschio.
Il legame tra carne, potere e identità maschile potrebbe essere dunque anche una questione evolutiva, di come i nostri cervelli si sono abituati a rispondere diversamente a determinati stimoli nel corso dei millenni.
Ma su un piano culturale, emotivo, quale paura, quale terrore abita gli uomini che temono che ridurre il proprio consumo di proteine animali metta a rischio anche la loro identità di genere? In molti casi la stessa che abita gli uomini spaventati dall’emancipazione delle donne, gli stessi che tacciano il femminismo di essere una ideologia violenta e pericolosa per le sorti del mondo.
Cosa c’è entra la sottomissione delle donne con l’ossessione di un certo mondo maschile per le proteine animali? C’entra eccome, sostiene instancabilmente la filosofa femminista Carol J. Adams da trentacinque anni. Statunitense, Adams nel 1990 pubblicò un saggio dall’interessante titolo The sexual politics of meat - in Italiano tradotto come Carne da macello. La politica sessuale della Carne (Vanda Edizioni).
La copertina del libro, rimasta intatta nelle varie riedizioni aggiornate, ritrae il corpo nudo di una donna “frazionato” nei tagli tipici della macellazione: come nei diagrammi da macelleria che indicano le parti di un animale, le linee tratteggiate segmentano il corpo umano, trasformandolo simbolicamente in carne da consumo. L’intero corpo è oggettificato, ridotto a oggetto alimentare.
Questa immagine risale agli anni Sessanta e proviene dal menu di una steakhouse di Manhattan. Adams l’aveva poi ritrovata, riprodotta su un telo mare. La sovrapposizione di esperienze - quella dell’animale macellato e quella della donna sessualizzata - potrebbe apparire come una forzatura ideologia. Ma andiamo per gradi.
Il libro di Adams, che suscitò e continua a suscitare accesi dibattiti e attacchi da parte delle frange conservatrici dell’opinione pubblica, introduce il concetto di «referente assente», una chiave interpretativa acuta per fare luce sulle subdole dinamiche della cultura della violenza sistemica contro gli esseri viventi considerati deboli: animali e donne.
Il referente assente è ciò che viene rimosso per rendere accettabile il consumo o l’appropriazione: l’animale vivo scompare dietro la parola “carne”, così come la soggettività della donna si dissolve dietro immagini che la rappresentano come oggetto sessuale.
È un’operazione simbolica che trasforma esseri senzienti in superfici mute da manipolare, desiderare, frazionare, consumare, fagocitare. Su cui, in parole povere, esercitare potere illimitato. Questo processo è radicato in profondità nel linguaggio comune.
Gli animali associati agli uomini tendono ad avere una connotazione positiva: il leone incarna coraggio e forza, il toro e lo stallone evocano potenza sessuale e vigore fisico, mentre il manzo è spesso usato per indicare un uomo attraente.
Al contrario, quando si parla di donne, l’associazione con animali è il più delle volte svalutativa o offensiva: vacca, oca, cagna, gallina. Questa asimmetria linguistica riflette una gerarchia culturale profonda, in cui la “natura animale” è celebrata nell’uomo come espressione di potere e dominio, mentre nella donna viene degradata a elemento di ridicolo, controllo o ipersessualizzazione.
Ma la violenza simbolica è presente anche nella pubblicità, nei media, nella cucina. Sono molte le campagne pubblicitarie che mettono in scena il corpo femminile come fosse un pezzo di carne: in una pubblicità statunitense, una donna è rappresentata sdraiata su un piatto da portata, le gambe piegate come un pollo arrosto, accompagnata dallo slogan “Satisfy your primal urge”.
Il messaggio è chiaro: l’uomo vero mangia carne e possiede donne, entrambe rese oggetti del suo desiderio, entrambe “servite” per soddisfarlo. Adams mostra come questi immaginari non siano casuali, ma parte di un sistema culturale che si regge sullo stesso meccanismo di cancellazione e silenziamento dei soggetti vulnerabili, per giustificare e perpetrare il loro sfruttamento.
L’analisi di Adams non solo resta valida trentacinque anni dopo la sua prima formulazione, ma trascende i confini geografi. «Purtroppo, grandi differenze tra il contesto americano e quello italiano non ce ne sono. Le dinamiche di potere che collegano sottomissione della donna e dell’animale sono evidenti anche in Italia. E sono trasversali, permeando ogni gruppo sociale», spiega Valentina Dalla Francesca, ricercatrice indipendente che ha tradotto e curato la riedizione del testo in Italia.
«Ad esempio, Adams analizza l’utilizzo della parola “bestiame” da parte di alcuni movimenti femministi statunitensi che, in difesa del diritto all’aborto, associavano appunto gli animali da macello alle donne private del controllo riproduttivo. Queste associazioni mentali abitano l’inconscio di tutte e tutti, negli Stati Uniti come in Italia: l’humus culturale, patriarcale e carnivoro, è lo stesso», aggiunge Dalla Francesca.
Se il consumo di carne è ancora oggi associato alla forza, alla virilità, al potere, è perché la forza, la virilità, il potere, sono ancora parole che usiamo per parlare di qualcos’altro: la sopraffazione del forte sul debole. E se essere forti fosse invece qualcosa di molto diverso? A questa domanda cruciale, forse – oggi, domani – aiuterà a rispondere qualcuno a cui storicamente non è mai stata posta: le donne.
© Riproduzione riservata



