Man mano che informavo gli amici che stavo traducendo il nuovo romanzo di Hanya Yanagihara, durante il 2021, ho scoperto le dimensioni del culto che la circonda. La stessa gestione del lavoro di traduzione è stata comicamente infusa di hype e segretezza internazionale, con i file in pdf che mi arrivavano nella mail e le password separatamente, su WhatsApp; si sono avvicendati file sempre nuovi, con versioni rivedute e corrette da confrontare col lavoro che stavamo accumulando. (Per i boomer: mi sono sentito volenteroso e stressato come Glyn Johns in Get Back).

Uscito il libro, infine, amici e amiche che si erano persi nella storia di Jude, il protagonista del bestseller Una vita come tante, nell’arazzo di problemi psicofisici e sventure che ne hanno fatto la fortuna, hanno iniziato a chiedermi con insistenza se Verso il paradiso fosse all’altezza.

A giudicare da com’è costruito Verso il paradiso, è evidente che più di chiunque altro sia stata Yanagihara a dover fare i conti con i suoi amici e amiche che chiedevano un nuovo A Little Life. E se la cosa è normale per chiunque si trovi a sperare di bissare un grande successo, lo è ancora di più in quest’epoca dove il rapporto tra società di massa e tecnologie digitali sembra aver sospeso il tempo lineare: i libri possono tornare o entrare in classifica improvvisamente per un video su TikTok indipendentemente dall’anno di uscita, come sta succedendo a lei, seguendo un’improvvisa passione collettiva che non passa necessariamente per l’intermediazione del mondo culturale come eravamo abituati.

Ora, dunque, Verso il paradiso arriva in libreria e in classifica mentre Una vita come tante vende ancora, in Italia, come un libro appena uscito.

Sfortuna collettiva

Illustrazione Pixabay

In Verso il paradiso mi sembrano chiare alcune scelte dell’autrice rispetto al rapporto con il libro precedente. Con la storia di Jude e dei suoi amici, Yanagihara aveva rilanciato il melò come autentica possibilità espressiva della letteratura. Una letteratura queer, camp, esagerata, per superare quella che pare l’impasse minimalista-memoiristica-moralistica della letteratura americana recente.

In Verso il paradiso, il melò c’è, ma con una novità fondamentale: dove l’altro libro giocava a fare la caricatura di Giobbe, mostrandoci un ricettacolo umano di sfortune e di ferite, qui non esistono sfighe soverchianti, se non quelle che la Storia infligge alla collettività.

La sfortuna che domina la prima parte di Verso il paradiso, ambientata in una New York di fine Ottocento ucronica, è una sfortuna di classe: i poveri sono liberi ma disperati; gli ereditieri vivono paralizzati dal patrimonio; la sfortuna della seconda sezione è la piaga collettiva dell’Aids, qui vista dalla prospettiva di un gruppo di amici omosessuali e colti nel West Village degli anni Ottanta-Novanta. La sfortuna della terza parte, che è ambientata alla fine del Ventunesimo secolo, è anche questa una piaga collettiva: una serie di pandemie che per tutto il secolo avranno messo in ginocchio l’umanità, portandosi dietro diversi cambi di paradigma politico.

Se Una vita come tante ha un approccio di orrore e dolore che ha suscitato tanto affetto in generazioni diverse di lettori, fino a meritarsi video omaggio di ragazzini in lacrime, che circolando continuano a rimandare il libro in ristampa, Verso il paradiso sembra scritto da un’autrice del Settecento: c’è una speculazione storico-politica sentita ma anche sottilmente divertita, alla Sterne.

Le tre storie che compongono il libro sono storie collettive, che vanno a ragionare su classe, eredità, politica e malattia. Dove il libro precedente giocava sull’emozione pura della partecipazione alla vicenda di una persona sfortunata, in questo la pena va indirizzata all’umanità intera.

Concentrandoci su tre fini di secolo – una che non abbiamo vissuto, una che abbiamo vissuto, e una ancora di là da venire – possiamo osservare molto dall’alto la miseria delle imprese umane, studiare in che modo individui e gruppi e famiglie combattono per sopravvivere agli eventi. In questa lotta, il punto cruciale rimane il rapporto umano tra persone intime. Verso il paradiso è popolato di padri e nonni che deludono, e di figli e nipoti vittime dell’immaturità delle persone a cui sono affidati.

Se la Storia, vera o inventata che sia, è protagonista, le terminazioni nervose dell’umanità rimangono i singoli con i loro tanti dolori e le loro piccole gioie e speranze. Non c’è la violenza dell’altro libro, solo, se vi accontentate, una prassi di abusi psicologici.

Anima superindividuale

Ma la differenza forse più importante tra i due libri è che, nel cercare di smarcarsi dall’opprimente domanda di ripetere il successo di Una vita come tante, Yanagihara ha scritto tre libri in uno: una ucronia, come dicevo; una novella realista; una distopia. Perché allora non chiamarla “raccolta di novelle”, al di là delle ragioni di marketing? Perché le tre storie si parlano al punto che l’identità dei vari personaggi, che spesso condividono gli stessi nomi propri, comincia a sfumare.

Un altro scrittore cerebrale ma popolare, David Mitchell, ha fatto un lavoro simile in Cloud Atlas, da cui è stato tratto il film – anche questo volutamente melò – delle altrettanto queer e camp sorelle Wachowski.

Se non ricordo male, in quel romanzo persone vissute in secoli diversi, nel passato e nel futuro, erano connesse da una sorta di anima superindividuale, o di reincarnazione.

Yanagihara, da vera newyorkese, ricava quest’anima superindividuale dal mattone: le tre storie sono ambientate nella stessa casa in brownstone su Washington Square, la piazza simbolo del West Village (nelle edizioni spedite agli addetti ai lavori è stata trasformata in una scatola di cartone a forma di casa, che per coincidenza ricorda i lavori decisamente immobiliari del fumettista Chris Ware, altro autore che sto traducendo).

Le tre storie, tanto diverse, dalle carrozze agli aperitivi colti alle tute di decontaminazione, hanno luogo nella stesso pezzo di real estate, ma a fondere le anime dei vari personaggi sta anche il fatto che le questioni private delle tre storie sono omaggi mi pare evidenti a Washington Square di Henry James, dove una giovane ricca era contesa da suo padre e da uno spasimante poco affidabile.

Usando l’omaggio letterario, Yanagihara propone tre storie che si parlano tra loro, e diversi personaggi che provano a scappare verso il paradiso, ossia un futuro di libertà e amore.

Ricerca estetica

Mi piace vedere Yanagihara come un’autrice concettuale, qualcosa di simile a Knausgård, altro autore che sta facendo della semplicità e della relatability (lo dico in inglese perché è un concetto che è merito e colpa dell’America, a livello di pop e narrazioni) la forza dei suoi romanzi-performance-tour de force.

Questi due autori usano la prosa come Maurizio Cattelan usa la materia: l’arte è nel movimento creato e non nel trattamento della materia usata. Knausgård può permettersi alcune sciatterie letterarie, Yanagihara può permettersi una scrittura veloce, fatta di elementi che si ripetono con poche variazioni, creando una grammatica simile a quella del cartone animato, della sitcom, del fumetto a puntate. La complessità semmai sta in come entrambi giocano con le aspettative del pubblico contemporaneo ripensando i generi e gli equilibri.

In un recente profilo scritto da D.T. Max per il The New Yorker, emerge che Yanagihara non si sente parte della comunità letteraria. Max ci aiuta a gettare un ponte tra l’high concept accessibile dei romanzi di Yanagihara e il lavoro raffinato e intuitivo che la scrittrice sta facendo come direttrice di T, il settimanale di stile proprio del New York Times.

Nella sua curatela si nota la stessa ricerca estetica veloce e immediata presente nei suoi romanzi: la sua scrittura è fatta per un mondo dove una storia dura ventiquattr’ore e poi si cancella. Non vuole indugiare e rivedere: scrive correndo senza guardarsi indietro, puntando al cuore, la pancia e la soglia di attenzione di chi ha ancora voglia di leggere, tra una notifica e l’altra, dei lunghi libri di carta.


Hanya Yanagihara è autrice del libro Verso il paradiso, edito da Feltrinelli e tradotto nella versione italiana da Francesco Pacifico

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