Questa estate ho visto Fran Lebowitz in carne e ossa. La sua persona. Ma andiamo con ordine.

Fran Lebowitz, che da qui in avanti chiamerò Fran, dice spesso che la sua vacanza ideale è starsene a casa. Se una mattina alle cinque la vedi in piedi fuori dal palazzo dove abita con una valigia, sicuramente non sta andando in vacanza, ma sta aspettando un taxi per l’aeroporto. E se prende un aereo lo fa per andare a lavorare, per esempio per raggiungere la città dove si tiene un suo spettacolo. E a lavorare lei ci va per una sola ragione, e questa ragione è guadagnare dei soldi. I soldi le servono per abitare serenamente dentro la sua casa, la casa che per lei rappresenta anche il luogo ideale di vacanza.

I soldi sono importanti per Fran. Lo sono per tutti, ma lei ci tiene a sottolineare il punto, non solo non lo nasconde, proprio lo sottolinea, lo mostra per quello che è, lo mette al centro di alcuni discorsi, ma senza enfasi. Certo ricorda con esattezza ogni lavoro che ha svolto nella vita (pulire appartamenti, guidare taxi), ricorda l’origine e il significato di ogni centesimo guadagnato. In lei abita il bisogno umano della calma economica.

Non il bisogno di raccontare sé stessa, non il bisogno di condividere, non l’ossessione contemporanea per la propria fragilità, e nemmeno il tarlo della fama. I soldi. Questi soldi non le servono per costruire speculazioni finanziarie, o per dimostrare qualcosa al mondo. Le servono per vivere dentro la vita che si svolge nella sua casa. E naturalmente per andare al ristorante, dal momento che non cucina mai.

Di Fran mi attraggono molte cose, e trovo che da giovane fosse bella. Ma il suo rapporto col denaro mi attrae specialmente. Mentre per i libri e le sigarette lei prova sentimenti amorosi purissimi, con i soldi ha una relazione amara. In fondo credo che non li capisca. In lei il desiderio di avere denaro si mescola dunque al desiderio impossibile, e non esplicito, di distaccarsene completamente, come fanno i re e le regine. Non è brava a capire il mercato immobiliare della città in cui abita, lo dice spesso, e questa è un’ammissione difficile, perché la sua città è New York, e New York fa parte di quelle città in cui l’esistenza si lega profondamente alle gioie e ai dolori del mercato immobiliare, a quale tetto hai sopra la testa, sempre che tu ne abbia uno. Mi piacerebbe spiegare i soldi a Fran. A me è sempre parso di capire i soldi.

Questa estate ho visto Fran Lebowitz, dicevo, ma non so se riuscirò ad arrivare al punto. L’ho vista perché una mia amica mi ha invitata a teatro, e quando mi ha invitata era il marzo del 2021, e la pandemia compiva un anno, e le nostre esistenze avevano un colore particolare, il colore delle terre di mezzo. Qualsiasi tempo futuro appariva lontanissimo, e gli inviti sembravano degli appuntamenti col destino. «Andrò a teatro a vedere Fran. Se sarò viva, perché magari invece non lo sarò. E Fran? Sarà viva? Comprando questi biglietti, programmando il futuro con così tanta ambizione, uccideremo Fran?»

Facciamo un balzo in avanti, veniamo a oggi, un oggi inteso come un tempo successivo all’aver visto Fran. Sto prendendo gli appunti mentali che porteranno alla scrittura di questo pezzo, e mi trovo con i miei figli. Il piccolo gioca con dei sassi, siamo all’aperto, li lancia a pochi centimetri da sé. Nervosamente, ma anche con una certa concentrazione. La grande mi guarda e dice: «Lo vedi? Lui è il nostro Fran».

Mia figlia ha un’idea generale di chi sia Fran, ogni tanto è capitato che ne parlassi in casa, e ha visto su Netflix qualche passaggio di Pretend it’s a city. La serie dove Fran parla con il famoso regista Martin Scorsese. Danno le loro opinioni su turisti, soldi, metropolitane, arte e il non semplice atto di camminare a Times Square. Niente di più, ma è sufficiente perché qualcosa sia precipitato nel lessico famigliare. No, anzi, non è un lessico, è un immaginario. L’immaginario ha sempre una natura anfibia, vive fra la concretezza del corpo e l’astrazione del pensiero.

E questa natura anfibia è coerente con Fran, perché anche Fran vive fra la concretezza del suo corpo e l’astrazione del suo pensiero. La presenza fisica di Fran non è una presenza fisica qualsiasi. Fran si veste allo stesso modo da molti anni. Si pettina (o non si pettina) allo stesso modo. Non vuole essere sfiorata da mani altrui che le dicano come farsi i capelli e cosa indossare. Fran, insomma, è un’installazione artistica. È un corpo vestito con determinati abiti, ed è una camminata riconoscibile, con la quale si muove in una maniera solo sua. E io questo l’ho pensato vedendola sullo schermo, ma ancor di più vedendola dal vivo, su un palco.

A tratti sembra una persona molto stanca di tutto, anche se mai esitante, a tratti invece ha scatti improvvisi, adolescenziali. Il termine per descrivere una persona il cui contributo culturale include anche la fisicità sarebbe “icona”, ma questo termine oggi è troppo usato, ha perso senso, perché tante, troppe persone tentano di essere icone. In un mondo di sovraesposizione fisica attraverso le immagini, “icona” è una parola usata con i piedi.

Mentre scrivo mi viene in mente un pensiero indicibile, ma lo dirò lo stesso, tanto Fran non mi leggerà mai. Stabilito che per Fran non possiamo usare il termine annacquato di icona, ci troviamo col problema di giustificare il nostro desiderio di vederla dal vivo, di vedere lei che dice le cose che dice. Questo desiderio è abbastanza diffuso, visto che Fran riempie i teatri. È un desiderio che ha a che fare con l’intrattenimento, certamente, del resto andiamo a vedere uno spettacolo, ma ha anche a che fare con la necessità di sincerarci dell’esistenza di Fran e di verificare da vicino la sua forma esteriore.

Siamo come i bambini adottivi che vogliono conoscere la loro madre naturale. Siamo stati adottati dal nostro tempo insoddisfacente, dalla contemporaneità, cioè, che è sempre insoddisfacente, in qualsiasi epoca. Ma noi siamo superbi e pensiamo di appartenere a un tempo diverso, migliore, il tempo rappresentato da Fran, che oggi ha settantun anni, non tantissimi, tutto sommato. Ma Fran è legata profondamente a un tempo diverso, precedente, che noi mitizziamo. Un tempo che chiamiamo Novecento. Dunque Fran – quel tempo diverso - è la nostra vera madre, e per questo la cerchiamo e la vogliamo vedere. (Spero che Fran non scopra mai che qualcuno l’ha definita madre, non credo che lo apprezzerebbe).

La vacanza ideale di Fran è starsene a casa, la mia è prendere un aereo per andare a Londra a vedere Fran. Inizio a organizzarmi molto prima, con due bambini non posso svegliarmi una mattina e dire «Bene, arrivederci, vado a Londra a vedere Fran». Considero l’idea di portare tutta la famiglia, ma vengo fermata in tempo da mio marito. «Ci devi andare da sola. È importante.» Allora vado a Londra, una città nella quale ho vissuto per molti anni, una città con molti significati per me.

Il viaggio in aereo è breve, e senza bambini mi appare di una semplicità inesprimibile. Mi son portata dei libri, ma non leggo, non faccio nulla, sono pietrificata da tutta questa straordinaria semplicità del viaggiare soli. Fran dirà, durante lo spettacolo, che la famiglia è una fabbrica per la produzione della follia. E io dico che solo le persone superficiali attribuiscono un senso totalmente negativo a questa frase, visto che la follia ha aspetti di meraviglia. Però non posso negare che viaggiare da soli, cioè senza famiglia, faccia bene alla sanità mentale. All’atterraggio mi sento come una che è stata in una spa.

Il mondo mi appare nella sua naturalezza, persino l’aeroporto, che è il City Airport, piccolo e agile, sembra partecipare a questo momento di grande compiutezza. Per andare in città prendo un treno leggero che attraversa i Docklands.  

Ho scelto di dormire nella City. Lo spettacolo di Fran è in quel quartiere, al teatro del Barbican Center, nello stesso gruppetto di strade dove dormii la prima volta in cui andai a Londra per un colloquio di lavoro. Esco a passeggiare, è pomeriggio, percorro il lungofiume e i suoi significati, arrivo fino a Westminster. In quel punto penso: «Forse dovevo portare i bambini, sono egoista.» Mi appare la faccia di mio marito che mi dice: «Piantala». Durante lo spettacolo Fran dirà che i genitori ormai amano così tanto i loro figli, e li seguono e ascoltano così tanto, che questi vengono su pensando che il mondo intero sia interessato alle loro esigenze.

Tornando verso la City entro alla Tate Modern, c’è il video di un artista che ha filmato i comportamenti delle formiche brasiliane. Poi mi scrive la mia amica per farmi sapere dove ceneremo prima del teatro, e così finalmente ci troviamo, ci abbracciamo, mangiamo in questo pub che ha una lepre nel nome. Sotto la nostra conversazione scorre la tensione per Fran. La mia amica confessa la paura che Fran muoia prima dello spettacolo. Le dico che anch’io ho avuto e ho la stessa paura. Fuori dal teatro fumiamo una cattiva sigaretta elettronica.

Entriamo, prendiamo posto, ci guardiamo intorno. Chi sono le persone che vanno a vedere Fran? Per qualche ragione pensavo fossero tutte persone più vecchie di noi, ma no, siamo nella media. Le osservo, cerco di capire se abbiano tratti esteriori comuni, non li hanno. Del resto non so cosa mi aspettassi. Un gruppo di individui travestiti da Fran? Maschere di Fran? E chissà se queste persone mi starebbero simpatiche. Abbiamo Fran in comune, certo, ma cosa significa? Un certo gusto? Io non ho mai creduto ai club.

Appare Fran. Che è esattamente la nostra madre naturale, l’intero teatro sembra trarre un sospiro di sollievo di fronte a questa comune realizzazione. Indossa i suoi soliti jeans, i suoi stivali. Una camicia chiara. Una giacca chiara. I capelli sono proprio pettinati (o non pettinati) nel modo atteso.

Lo spettacolo ha una struttura semplice, quasi inesistente: dopo un breve dialogo con una giornalista del Guardian, Fran risponde, improvvisando, alle domande degli spettatori. Gli spettatori, per richiesta esplicita di Fran, non possono usare il microfono, devono urlare.

Lei ogni tanto non capisce, il teatro è grande, le voci sono a volte basse, a volte stridule. Fran non si scompone, se si stufa lascia perdere, non risponde. Non è mai preoccupata dai disguidi. Le chiedono che cosa la faccia annoiare, risponde che lei non si è mai annoiata in vita sua, e non si è mai sentita sola, o meglio sì, le è capitato di sentirsi sola e annoiata, ma solo in compagnia di altre persone. Le chiedono se abbia parole di conforto per noi, risponde di avere un vocabolario molto ampio, che purtroppo però non include parole di conforto. Le chiedono cosa pensi di Johnny Depp, risponde di non essere interessata a Johnny Depp.

Le chiedono quale sia il suo libro preferito, risponde che il libro preferito lo può avere un bambino che ha letto due libri, un adulto che ha letto molti libri non può averlo. Le chiedono cosa pensi dell’intelligenza artificiale, risponde che l’essere umano ha iniziato a interessarsi dell’intelligenza artificiale quando ha deciso di lasciar perdere l’intelligenza naturale. Le chiedono cosa pensi della sinistra, risponde che l’elettore di sinistra ha questa capacità di inseguire un’idea di perfezionismo e che così facendo si tira la zappa sui piedi. Le chiedono cosa pensi di sé stessa oggi, risponde che ha perso interesse in sé stessa venticinque anni fa.

A questo punto lo spettacolo ha assunto le sembianze dell’interrogazione di un oracolo. Mi trovo a pensare, per l’ennesima volta, insensatamente, «Dovevo portare i bambini con me». In quel momento Fran, che sta rispondendo a qualcuno, o forse mi legge nella mente, dice «Ah sì? E dove?»

Poi si volta e con una rapidissima mossa adolescenziale lascia il palco senza salutare.

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