Il film, che esce da noi il 13 novembre, ha già fatto innamorare la Francia e, col giusto passaparola, potrebbe riempire anche le sale italiane. La danza fluida del regista transalpino, tra l’oggi prosaico e la Parigi fin de siècle dell’esplosione impressionista è come Fred Astaire in azione: la grazia sublima la tecnica, senza sforzo apparente.
In una delle sale ovali che ospitano Les Nymphéas di Claude Monet all’Orangerie si sta girando uno spottone di haute couture. La top model di turno protesta: non solo l’arte le ruba la scena, ma «il giallo del vestito fa a pugni con i colori del quadro». «Cambiamo il vestito?», propone incauto il filmaker. Sarebbe eresia. «Non puoi cambiare colore al quadro?»
Che la mercificazione trionfi sull’arte è scontato per Cédric Klapisch, autore di un film che ha fatto innamorare i francesi e che, col giusto passaparola, potrebbe riempire anche le sale italiane. Perché leggerezza e ironia, che hanno il potere di contrabbandare cultura anche nel cinema popolare, sono l’arma segreta de I colori del tempo (La venue de l’avenir, in originale), in uscita da noi con la distribuzione indipendente di Teodora il 13 novembre.
La danza fluida di Klapisch tra l’oggi prosaico e la Parigi fin de siècle dell’esplosione impressionista e dell’avvento della fotografia è come Fred Astaire in azione: la grazia sublima la tecnica, senza sforzo apparente. E riscatta la nozione di feel-good movie, usata spesso per mortificare gli spettatori “di bocca buona” che dalla sala vorrebbero soprattutto uscire contenti. Come se fosse una colpa.
Il film ha sedotto anche Nanni Moretti – che l’ha voluto al suo Sacher – forse perché l’armonia misteriosa che trasmette non ha barriere elitarie. Tout se tient, come dicono da quelle parti: estetica e dialoghi, musica e struttura narrativa, più un manipolo di attori «ispirati», come ha scritto Le Monde. Tant’è che il festival di Cannes si è degnato di chiamare per la prima volta quest’anno in selezione ufficiale (fuori concorso) questo regista di casa storicamente premiato dal pubblico (Ognuno cerca il suo gatto, L’appartamento spagnolo, tra i suoi successi), ma solo dal pubblico.
Danzando tra i secoli
I personaggi di oggi, nel film, sono tutti parenti. L’intera discendenza di una tale Adèle Meunier, nata nel 1873, è stata rintracciata e radunata perché su casa e terreno dell’antenata, in un paesino della Normandia, vogliono costruire un ciclopico polo commerciale con smisurato parcheggio («un altro progetto europeo di merda», chiosa un erede).
Ma quella casa sbarrata da buoni ottant’anni riserva scoperte curiose, che marciano di pari passo con le avventure di Adèle medesima. A ventun anni, campagnola e analfabeta, è partita per Parigi alla ricerca di una madre sconosciuta. Se quel 1895, crogiuolo di arte nuova e rivoluzioni tecniche, è epico, il 2025 è comico. Sono comici, da sceneggiatura – come sempre scritta a quattro mani dal regista con Santiago Amigorena – i mestieri astrusi degli eredi delegati al business della vendita.
Seb (Abraham Wapter) è un «creatore di contenuti digitali». Céline (Julia Platon) elabora «progetti di discontinuità per l’innovazione ferroviaria». Abdelkim (Zinedine Soulaem), ramo algerino, è un prof ma anche un «community manager». Solo Guy (Vincent Macaigne) fa modestamente l’apicultore.
Mentre loro familiarizzano, seguiamo Adèle nel suo incontro di viaggio con Anatole, aspirante pittore (Paul Kircher), e Lucien, aspirante fotografo (Vassili Schneider). Come prevedibile, a Parigi la ragazza rintraccia sua madre Odette (Sara Giraudeau) in un bordello. Ora, il film di Klapisch è zeppo di figli d’arte. Adèle è Suzanne Lindon, figlia di Vincent e Sandrine Kiberlain. Sara Giraudeau è figlia di Bernard, che era anche in Passione d’amore di Ettore Scola. Paul Kirchner è figlio di Irène Jacob, ma ha già vinto due premi, compreso il Mastroianni per l’attore emergente a Venezia. Sono così bravi che parlare di nepotismo è da stupidi. Qualcuno lo fa. Chi ha gridato al nepotismo per Michael Douglas e infiniti altri figli-star Usa?
Dunque la narrazione si snoda tra le indagini dei nostri contemporanei, che nella casa avita hanno scovato un dipinto «forse» di grande valore, e le rivelazioni di Odette alla figlia. Ai tempi in cui l’ha concepita aveva due grandi amori: Félix Nadar, futuro mito della fotografia, e un oscuro pittore che le ha rubato il cuore. Questione di tempo: arriveremo a Claude Monet e al suo Impression: Soleil Levant, dipinto nel 1872 dalla sua finestra sul porto di Le Havre. A Odette ha lasciato il bozzetto delle pennellate arancioni sull’acqua. E per effetto di un trip lisergico da Ayahuasca i discendenti trasborderanno nel 1874 della prima mitica expo impressionista, tra le frecciate del critico Louis Leroy, che conia il termine dispregiativo di «impressionisti», e Victor Hugo che fa il cascamorto con un’autorevole postera in soggezione (Cécile De France).
È puro gioco di fantasia, ma il mix di precisione storica e umorismo emoziona. Come l’apparizione casuale delle «divina» Sarah Bernhardt. Come l’anziano Monet (Olivier Gourmet) che Adèle raggiungerà tra le ninfee vere di Giverny, padre e figlia certi ma senza strascichi e senza rancori. Si ama e poi si cambia oggetto d’amore. È la vita.
Fabbricare armonia. E difenderla
Ci sono fili sottili tra oggi e ieri, un lontano ieri, che fanno sorridere. Il vecchio carrettiere che trasporta a passo di lumaca Adèle in partenza usa nel 1895 il nostro linguaggio: «Oggi va tutto troppo in fretta. Voi giovani non trovate più il tempo di vivere». Attraverso i secoli, continuiamo a farci le stesse domande, e cerchiamo ancora risposte nel passato. «Ho sempre guardato avanti. Mi ha fatto bene guardare indietro», dice il discendente più giovane. Sarà banale, ma ha senso.
Ho voluto incontrare Cédric Klapisch soprattutto per chiedergli questo: come si arriva a costruire un’armonia quasi magica in un film “di consumo”?
«La parola migliore che mi viene è: incoscienza. Abbiamo capito solo alla fine quante fossero le difficoltà nel realizzarlo. Si è scritto quasi da solo, con una facilità quasi magica. I problemi veri sono arrivati con il montaggio, che è stato interminabile. Così come era stato scritto, il film non funzionava. Abbiamo dovuto creare in montaggio l’armonia tra i personaggi e l’equilibrio tra epoche lontane».
È interessante che Klapisch abbia diretto la prima stagione di Dix pour cent (Chiami il mio agente), la serie francese poi diventata di culto.
«Mi avevano sconsigliato tutti di fare televisione. Ho fatto una scelta militante. Volevo che su un canale pubblico andasse una serie di qualità, e ho impiegato un anno e mezzo solo per mettere a punto la preparazione. Il paradosso è che adesso nel mondo – torno proprio ora da Los Angeles – mi conoscono solo per quella. Come se i miei quindici film (ride) non esistessero».
Da sempre è un attivista di punta dei registi francesi. Quali sono le battaglie più urgenti sul nostro fronte europeo?
«La prima è per tutelare il diritto d’autore, così come esiste da noi in Francia, contro il modello di copyright americano: da loro titolare dei diritti è il produttore, da noi l’autore. Da anni tentano di omologarci. La seconda è per difendere il cinema in sala. Vai a Hollywood negli Studios della Warner, ora passati alla HBO, e i loro 34 teatri di posa sono tutti impegnati dalle serie. Dobbiamo impedire che il modello culturale europeo rincorra gli Usa e la colonizzazione delle piattaforme».
L’ultima “pennellata” del film è quasi subliminale. Il dipinto ereditato per caso è un pezzo inestimabile. Fuori dal coro, l’apicultore propone: «Perché non lo doniamo allo stato?» Piano finale sulle Nymphéas dell’Orangerie. Che, per l’appunto, Monet aveva regalato alla Francia.
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