«Abbiamo molti giorni di ritardo / sulla vita», recitano due versi del grande poeta vicentino Fernando Bandini, e nella matrice radicale di questa riflessione, che rimanda all’impossibilità di cogliere il mondo che ruota attorno a noi, sta anche un carattere decisivo della geografia poetica del suo autore, perché è la constatazione della presenza di un secondo tempo, di una lontananza simbolica da un centro dove tutto accade.

Ma questa distanza è più fisica che reale, perché la pretesa di una centralizzazione della cultura italiana è fallita, come dimostrano luoghi lontani dai centri culturali dalla vitalità impressionante come, appunto, il Nord-est, il Veneto di Rigoni Stern, la Pieve di Soligo di Zanzotto e la Vicenza di Fernando Bandini, ma anche la provincia di straordinari narratori contemporanei come Vitaliano Trevisan e Francesco Maino.

Si tratta d’altronde della stessa tensione tra centro e periferia di cui già parlava Pasolini negli Scritti corsari e che recentemente Goffredo Fofi in Le cento città (edizioni e/o) ha messo in luce sottolineando come, dopo il dominio delle «due capitali» Roma e Milano, negli ultimi anni «resistenza e movimento nelle periferie» abbiano generato una maggiore vivacità rispetto al centro.

Questo non significa che in Veneto la scrittura sia caratterizzata da una sintonia totale, ma è indubbia l’esistenza di una precisa linea della letteratura veneta costruita, come recita il titolo di un’importante rassegna della letteratura di quei luoghi, da scrittori «saturnini, malinconici e un po’ deliranti».

Lo smarrimento delle radici

C’è in effetti un minimo comune denominatore nel dialogo tra questi scrittori così diversi, il paesaggio, un territorio che si muove naturalmente tra acque dolci, mare, pianure e montagne («Era ad era, minuzia a minuzia, / crescesti questi sedimenti / da cui prendemmo forma e forza a vivere», questo il Piave di Zanzotto), ma che la trasformazione del Veneto in motore industriale del paese sta facendo svanire, con lo smarrimento delle radici, delle tradizioni e delle comunità, sotterrate nel cemento («5 pianeti occorrono alla fame dei terrestri / terroristi in favore della pletora», sempre Zanzotto).

Risponde a questo mutamento l’inquietudine che abita chi vive, osserva e scrive in quella terra e che non fugge davanti all’ombra lunga dell’illusione della ricchezza e del benessere.

Tra gli scrittori contemporanei, un ruolo certamente decisivo è quello di Vitaliano Trevisan che ha tragicamente processato dentro di sé, attraverso le oppressive e disperate linee della sua scrittura, la geografia dei suoi luoghi, emblematicamente e minuziosamente registrati dal protagonista di I quindicimila passi, misurazione degli spazi della provincia vicentina e sperimentazione di nuove possibilità di racconto, segno dei cambiamenti della società catturati nel loro divenire («Lascio per sempre alle mie spalle tutto questo schifo cattolico democratico artigiano industriale.

Lascio per sempre questo disgustoso buco di provincia, pieno solo di persone ottuse»). Anche Works vive dentro l’alcova vicentina costruendo un vero e proprio memoriale delle esperienze lavorative di Trevisan (in un luogo, come emerge bene dal libro, dove il lavoro ha un’aura sacra e rappresenta l’unica possibilità per affermare la propria esistenza), un romanzo autobiografico che però, come accade con la grande letteratura, si trasforma in imprescindibile analisi dell’intera area geografica grazie alla riuscita commistione tra pubblico e privato, tra storia personale e storia italiana.

La lingua di Maino

All’interno di questa linea narrativa si inserisce anche l’opera di Francesco Maino che in Cartongesso ha ambientato le vicende del rabbioso e impotente avvocato, suo alter-ego, Michele Tessari in un paese fittizio che è la sua San Donà di Piave, in un monologo che si scaglia contro la geografia, le industrie e l’umanità del Basso Piave («quel mondo obeso di buone forchette, e di intolleranti avvinazzati, di strisciante fascismo cristiano inebetito dal mito del potere, che nella declinazione veneta equivale a guerra per: figa giovane, liquidità, vino e baccalà»).

Ciò che impressionava in quel libro, oltre alla rappresentazione di un Veneto nebbioso e feroce, era anche la lingua di Maino, abile sperimentatore di un ibrido che confonde lingua italiana e parlata sandonatese, un miscuglio che mima con successo l’orizzonte sociale e geografico rappresentato. In un’intervista Maino ha parlato del desiderio di una «lingua antica, timida, modesta, povera, la lingua del dolore e del sacrificio che usava mia nonna», e nel suo nuovo libro, I morticani (pubblicato da Italo Svevo edizioni), l’aspetto linguistico diventa determinante, con l’invenzione di una lingua che procede di pari passo con la narrazione e si tramuta anch’essa in personaggio in un lontano riecheggiare gaddiano.

I morticani è forse il libro che sublima questa via veneta della letteratura, e lo fa ricongiungendosi simbolicamente alle narrazioni dell’antichità, alla tragedia greca.

Il racconto di Maino è infatti plasmato sulla storia della tragedia di Alcesti, che viene però qui raccontata dalla voce del protagonista, ancora una volta un «avvocatino e scrittore d’occasione», Alfonso Della Marca, in preda a una crisi di nervi, un’Alcesti ambientata nella provincia veneta in cui vive, il «Veenetken» che rimanda a una declinazione ancor più tragicomica della Cacania di Musil.

Attorno a lui si muovono personaggi che replicano in maniera farsesca e dozzinale quelli della tragedia greca (l’Apollo Luca Apolloni, «cera d’idiot, sempliciotto non semplice, dal capo ai piè un gallo in braghe blu, camicia e maglioncino (a v) firmati», l’Ercole Bassetti D’Eraclio Junior «capo compartimentale del ferrocarril di Stazione per l’Alpezzo»): la complessa costruzione narrativa di Maino sembra la prova plastica del paradigma del grande studioso di teatro Jan Kott che in Mangiare Dio dimostra l’attualità della tragedia antica e il continuo riattivarsi dei suoi meccanismi e personaggi.

«Sentirsi scrittore è una cosa seria», pensa Alfonso Della Marca, talmente seria da farlo scivolare in una follia che si condensa nel riconoscere i contorni della tragedia, saltellante tra comico, drammatico e grottesco, attorno a lui.

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