Nel gennaio di quest’anno moriva Vitaliano Trevisan, scrittore anomalo, non allineato, soprattutto talentuoso. Ora arriva in libreria per Einaudi Stile Libero un suo libro postumo, Black Tulips. Di cosa parla? Non lo scoprirete dalla quarta perché con una scelta piuttosto singolare Einaudi ha evitato ogni riferimento al contenuto nel paratesto.

Il tema, d’altronde, in quest’epoca di imperante perbenismo letterario, confina pericolosamente con l’indicibile e i tempi in cui gli editori giocavano sullo scandalo e la rottura dei tabù per vendere più copie sembrano, almeno per il momento, archiviati. I tulipani neri del titolo sono le prostitute nigeriane con cui Trevisan intrecciò nel tempo diverse relazioni.

Guardare dai margini

Tutto accade quando l’autore è attorno ai 40 anni d’età, quindi una ventina abbondante di anni fa. I luoghi sono il Veneto e poi la Nigeria, dove Trevisan segue una donna che ha conosciuto sulla strada. 

C’è una scena che fornisce in maniera piuttosto precisa la cifra dell’intero libro ed è il racconto della finale di un premio letterario a cui Trevisan partecipa. Alla cerimonia è presente anche una ex prostituta nigeriana, coautrice assieme a una giornalista di un libro sulla sua storia. La giornalista parla a malapena inglese, Trevisan invece parla piuttosto bene il nigeriano  – che è una specie di patwa inglese, un «inglese rotto» come lo definisce lo scrittore – ma quando lui e la nigeriana si mettono a chiacchierare nella lingua di lei, per lo stupore e il divertimento della ragazza, la giornalista interviene e la porta subito via. Il non detto è evidente: per parlare così il nigeriano devi essere uno che va a prostitute, uno sfruttatore.

L’assunto tradisce il pregiudizio colonialista, tipico di un certo umanitarismo, di chi non prende sul serio – né si interessa – alla cultura della vittima, che esiste solo in quanto vittima e non come essere umano inserito in un suo sistema simbolico-culturale diverso da quello del salvatore. Se non si sposa un’idea così paternalista non si può pensare che l’unico modo di conoscere e imparare la lingua di una persona sia sfruttarla sessualmente. In quella scena c’è però soprattutto un mondo – a dire il vero ce ne sono tre, ma concentriamoci qui su quello dell’autore, che è poi quello di questo libro: Trevisan aveva imparato la lingua – che è un modo di vivere, di vedere le cose: delle nigeriane e grazie a questo percorso di apprendimento riesce a mostrarcele in modi che altrimenti ci sarebbero preclusi, fa cioè il lavoro dello scrittore, non rimane fermo alla superficie della condanna morale.

Il suo sguardo rimane quello dell’osservatore esterno, ma si tratta di un osservatore contiguo, lo sguardo di quello che un tempo si sarebbe detto un proletario, seduto in un posto migliore ma non così radicalmente diverso rispetto all’oggetto del racconto. Trevisan e la ragazza di turno sono dei marginali appartenenti a due culture lontane.

Da Vicenza a Lagos

A Nigerian prostitute waits for clients in Siziano, near Milan, Italy, Monday, March 5, 2018. Nigerian teenagers and young women selling sex is a common sight for motorists in Italy. Working along roadsides and secondary highways in cities big and small, they are a haunting reminder that while Italy has been successful in curbing immigration from Libya, it has largely failed to help a fraction of the migrants trafficked as sex slaves. (AP Photo/Antonio Calanni)

L’esperienza di Trevisan con le donne nigeriane è molto più articolata di quella del semplice cliente e nel libro si sostanzia in diversi momenti che sarebbero belle immagini per un film sobrio, tristemente poetico, non giudicante, un film di quelli che raramente si fanno nel nostro paese.

Prima scena: un uomo alto, vestito di scuro, con la testa calva e l’aspetto vagamente slavo, che nel sottopasso della stazione di Vicenza – epicentro del locale quadrilatero del degrado – aspetta l’infornata serale di nigeriane in arrivo con il regionale da Padova. L’uomo sa che qualcuna di loro proverà ad attaccare bottone, il che è ideale per il suo carattere schivo.

Seconda scena: Trevisan che per tutta la notte gira per le statali attorno a Vicenza per trovare le ragazze che conosce e farci anche soltanto quattro chiacchere, preoccupato di quanto sta spendendo di benzina: al tempo è ancora portiere di notte in un albergo e le risorse sono quelle che sono.

Terza scena: Trevisan e una nigeriana al ristorante cinese. «Quando uscivo con una ragazza nigeriana ci andavo spesso, essendo uno dei pochi posti dove era probabile trovare altre coppie “miste”, come si dice, e nessuno che vi facesse più che tanto caso; perché c’è poco da fare: la gente ci fa caso». 

In Black tulips c’è anche un lungo viaggio in Nigeria, a Lagos, la capitale, fra il ronzare dei condizionatori diesel, il cibo cotto in strada nei bidoni, gli squadroni della morte della polizia, i venditori di marijuana e la stramba idea di quest’uomo che prima di riuscire come scrittore, attore e drammaturgo è stato per certi versi il lavoratore dipendente par excellence (come ha raccontato lui stesso in Works) e in quel momento pensa di diventare invece un imprenditore e mettere in piedi un commercio di pezzi di ricambio per automobili fra Nigeria e Italia.

Scelta piuttosto peculiare non solo per il vissuto e il carattere di Trevisan ma anche perché Lagos è la capitale mondiale delle 419 letter, le truffe per corrispondenza, prima via posta poi via mail. Un’industria miliardaria che è denominata così sulla base della sezione del codice penale nigeriano che si occupa di quel genere di reato.  

«Vedendomi da dove sono ora, non posso fare a meno di sorridere. Ero in Nigeria, a Lagos, per la precisione a Ikeja, nella patria dei 419’rs, ovvero nel loro brodo di coltura, per così dire, e ci ero venuto per fare affari! pur non essendo mai stato portato per gli affari!».

In più nei quartieri dove si muove assieme alla ragazza nigeriana che gli fa da guida e trait d’union con la società locale, Trevisan è sempre e invariabilmente l’unico oyibo, ovvero l’unico bianco. La trattazione di questa palese, manifesta, alterità, è un aspetto centrale del libro, un po’ perché è lo specchio imperfetto di quella delle nigeriane in Italia, un po’ perché se c’è una cosa che Trevisan è sempre stato è un uomo sui generis, distaccato dal gruppo, uno che saltava all’occhio anche al di là di quelle che probabilmente era le sue intenzioni.

Aspettarsi però per questo che l’esplicitazione estetica di questa solitudine esistenziale lo lasci indifferente sarebbe un errore: l’idea di essere l’oyibo, un essere umano minore all’interno di una comunità ostile, consuma Trevisan, tanto che ne scrive estesamente.

Un testo interrotto

ton koene

Il libro contiene molte riflessioni preziose su alterità, sessualità e prostituzione, oltre a bozzetti, disegnati con la mano del grande ritrattista, della personalità e della vita delle ragazze nigeriane. Il risultato complessivo è la progressiva destrutturazione della narrazione delle “tratta delle nere” dentro un intrecciarsi di storie umane in cui la realtà si tocca con mano e, senza essere per questo “positiva” o “migliore”, acquista veridicità proprio mentre smettere di essere monolitica.

Incontriamo così una ragazza certa che un giorno sarà lei fare la maman (la sfruttatrice di alte ragazze come lei), un’altra sinceramente convinta che al contrario che in Nigeria, al contrario che in Europa, una mutilazione sessuale come quella che lei ha subito da bambina semplifichi la vita, o, ancora, una donna che è rimasta in uno scantinato dell’est Europa per un mese prima che un’organizzazione la facesse entrare illegalmente in Italia e durante quel mese ha visto solo le scarpe dei passanti attraverso un lucernario.

Una delle cose straordinarie di questo libro – un aspetto della letteratura verso cui stiamo perdendo l’abitudine – è come tutta questa realtà ci arrivi addosso senza bisogno di inserirla in un apparato di scuse, di giustificazioni, di dissociazioni preventive. La distanza temporale dai fatti narrati e, soprattutto, la natura di testo interrotto, rendono Black Tulips un libro discontinuo, più riuscito in alcuni punti e meno in altri, ma quello che c’è di buono, come spesso capita con Trevisan, è molto buono.

In alcuni frammenti si avverte però anche un avanzare del disagio nella voce dell’autore, l’argomentare si avviluppa su sé stesso, la riflessione si fa claustrofobica e ricorsiva, il centro del discorso sembra sfuggire verso un punto di fuga nascosto allo sguardo. Forse, avendone il tempo, Trevisan avrebbe reso il suo testo più chiaro e questa nebulosità è da attribuire alla natura interrotta del libro, forse, invece, era il seme di ciò che sarebbe successo dopo. In ogni caso Black Tulips è un libro unico, di cui avere cura, scritto da un autore che ha sempre messo tutto sé stesso sulla linea, come solo chi ha un’alta idea della letteratura può fare.  


Black Tulips (Einaudi 2022, pp. 232, euro 17) è l’ultimo romanzo, uscito postumo, di Vitaliano Trevisan

© Riproduzione riservata