La tentazione latente nei cugini d'oltralpe di assimilare alla cultura artistica francese momenti e figure dell'arte europea i più diversi, è ben evidente in questo momento nella grande e bella rassegna al Musée d'Orsay dedicata a Edvard Munch (Löten 1863 - Ekely 1944). La mostra Munch et la France sin dal titolo rivela le intenzioni programmatiche: subito aggiungo che esse sono del tutto motivate dalla ricchezza delle fonti a cui attinse l'artista norvegese, dalla frequenza dei suoi rapporti con Parigi, dall'influenza che l'Impressionismo e i suoi derivati esercitarono sulla di lui formazione. Quale dunque la mia perplessità?

Mi permetto di dire ai bravi curatori della rassegna -  Claire Bernardi, direttrice del Musée de l'Orangerie, con la collaborazione di Estelle Bégué, responsabile degli studi - che un sottotitolo-data avrebbe risolto ogni ambiguità, dissipato ogni ombra: suggerirei 1889-1908, vale dire l'esordio di questo sodalizio con la Francia e la sua conclusione.

Il pittore norvegese visse una lunga, conclusiva e drammatica esperienza artistica, nell'alveo di un teso quanto fervido rapporto con la cultura tedesca, berlinese in particolare. Nel 1885 il ventiduenne pittore si reca a Parigi: la generazione dei suoi maestri era stata a Dresda, a Monaco persino a Roma ma, quasi ad indicare una svolta nell'Europa delle capitali artistiche, gli allievi vanno nella Ville Lumière.

Il miraggio del giovane è il Louvre e il Salon del 1885 la prima grande occasione di immergersi nel flusso delle più rilevanti novità contemporanee: le esperienze da cui proviene sono quelle di un naturalismo esile, incline più alla finezza di un disegno di dettaglio che alla probante forza di una composizione dominata da un cromatismo squillante e baluginante di luci.

Esordi provinciali

E' fin troppo evidente che l'esordio a Christiana, la capitale norvegese, sia sonnolento quasi irrilevante rispetto al contesto: ma già nel 1884, cioè l'anno che precede la partenza per la Francia, il pittore Christian Krohg, in una lettera di raccomandazione, sottolineava la personalità dell’allievo «in ragione dei suoi rari talenti di colorista».

L'anziano maestro aveva visto bene: a Parigi Munch entra in contatto con un ambiente del tutto inedito. Quell'anno c'era l'Esposizione Universale, e presso la già affermata galleria di Durand-Ruel poté vedere una maggior parte dei maestri impressionisti: Manet, Monet, Berthe Morisot, Pissarro, Renoir, Sisley e Degas, oltre ai neo-impressionisti Signac e Suerat sono lì a proporre un nuovo orizzonte dell'arte.

Rievocando quel primo incontro con Parigi Munch dirà che era stato soprattutto emozionato da Manet e da Velasquez: difatti il ritratto a figura intera del suo amico pittore Karl Jensen-Hjell (1885) è già filtrato da questa esperienza. 

Le tre settimane volano e per un nuovo incontro con Parigi e la Francia passeranno quattro anni. Tra il 1889 ed il 1892, poi tra 1896 e 1898 si collocano i più lunghi e formativi soggiorni nell’Esagono.

C'è un filmino tremolante girato dallo stesso artista che ci mostra i boulevard, i cafè chantant, la Tour Eiffel, la Gare de Lion e il soggiorno a Nizza.

Nel 1889 studia con Bonat disegno, matura la sua concezione di  una pittura per macchia e s'insinua nel suo temperamento melanconico l'insidia della depressione e del  malessere mentale. Fu quella di Munch un'esistenza all'ombra di questa devastante condizione umana: La ragazza malata (1885-86, Galleria Nazionale di Oslo) è composizione ancora prigioniera di un naturalismo quasi elegiaco, ma pure la forza del disegno ad andamento sinusoidale - caratteristica formale per definire una forma che è chiusa, ma pure aperta - si ritrova qui, ma anche nella Melanconia (1891), a designare il paesaggio di anima dolente. L'uomo in primo piano ricorda i meditativi personaggi di Rodin esplicitamente ritratto in un Giardino del 1907.

Novecento bruciato

Un pittore provinciale si trasforma in un originalissimo artista che brucia, in un numero di anni che si contano sulle dita di una sola mano, una tra le esperienze più sconvolgenti dell'arte del Novecento.

Il Grido è del 1893 ed è un'icona che prescinde dalle possibili - ma labili - affinità con talune tele di Gauguin, come intende suggerire la mostra: questa metafora del dolore e della disperazione umana non ha precedenti e non avrà seguito.

Diviene il marchio a fuoco di una generazione senza speranze che vive tra le illusioni dei paradisi perduti ed il presagio dei tragici destini che incombono sull'Europa. Questo solo dipinto è come un segnale, una straordinaria metafora di un dolore immanente ed universale: citare al riguardo il ritratto del patriarca Ibsen o quello più tardo di Strindberg potrà persino apparire una ovvietà: ma del tutto giustificata dalla piega che va assumendo la vicenda umana e creativa di Munch.

La morte nella camera della malata (1896), la serie dei ritratti, soprattutto quelli nei quali Munch si autorappresenta come fratello in spirito di Amleto, sono tutti volti ad unico fine: assumere l'arte non a consolatrice del dolore, ma a specchio estremo della condizione del vivere.

Munch si rivela oltre che pittore di straordinaria forza visionaria - intimamente legato alla tensione espressionista che dilaga nella Germania della Repubblica di Weimar - un grandissimo grafico: degno di Goya.

Ma i disastri delle guerre qui sono divenuti i disastri, tutti privati, della coscienza sconvolta dal dolore, turbata in modo irreparabile dalla crudeltà della vita.

Una vita tanto aspra nemica dell'uomo da assumersi l'onere di affermare il diritto alla propria arbitrarietà e alla cieca violenza con la quale dispensa dolori e lutti, ai corpi e alle anime. In catalogo gli scritti inediti stanno a testimoniare l'angoscia che dominò la vita di Munch.

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