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La tuta ha rivoluzionato il rapporto tra abiti e identità di genere

Illustrazione Didier Falzone
Illustrazione Didier Falzone
  • La tuta si chiama tuta in onore di Thayaht, il futurista fiorentino che nel 1919 la disegnò e pubblicizzò come abito per tutti.
  • Nell’essenziale T che forma unendo pantaloni e camicia in un unico indumento di linee rette, questo capo del futuro rappresentava sinteticamente l’essenza maschile dell’umano, da estendere anche alle donne rimuovendo i loro orpelli e costrutti. Un’idea misogina di liberazione, che fa della maschilità uno standard invece che una specificità.

  • Il fatto che la tuta tutta d’un pezzo sia diventata, proprio per le caratteristiche di funzionalità cercate dal suo creatore, un universale capo da lavoro oltre che da passerella, costituisce forse l’impatto più grandioso e ramificato che la moda e il design italiano abbiano avuto nella storia dell’umanità. Clicca qui per iscriverti gratuitamente alla newsletter e segui tutti i contenuti di Cose da maschi.

Cinquant’anni fa, nella primavera del 1952, si verificò in Italia un tripudio senza precedenti di avvistamenti di dischi volanti e altri oggetti spaziali non identificati. Le nostre volte celesti non erano mai state così intensamente visitate – o, se lo sono state, non ce n’eravamo accorti. Sconvolto dal silenzio delle istituzioni a riguardo, un senatore del Psdi avviò un’interrogazione parlamentare. Soltanto in America, sosteneva l’onorevole, un governo occidentale ha il coraggio di comunica

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