L’emergenza ambientale procede inesorabile: milioni di specie si estinguono a ritmi vertiginosi, gli oceani si scaldano, i ghiacciai si sciolgono, le foreste vengono disboscate e interi ecosistemi rischiano di scomparire. Mentre le conferenze sul clima, da almeno trent’anni a questa parte, paiono non riuscire a porre un freno alle inquinantissime attività umane, responsabili della crisi più grave del nostro tempo, da cui dipende la sopravvivenza della nostra stessa specie umana.

Nella sfida ardua ma irrinunciabile di convincere popolazioni e governanti che rivoluzionare i nostri stili di vita è l’unica via per tornare a un rapporto di equilibrio con la terra che ci ospita, può venirci in aiuto un alleato inaspettato: la musica. È questa almeno l’intuizione di Dario Giardi, proposta nel suo E se fosse la musica a salvarci? (Mimesis), un agile libro che mette insieme, in modo interessantissimo, due ambiti che si incrociano solo di rado, musica ed ecologia.

Vibrazioni

L’autore da un lato è un ricercatore ambientale, e da tempo si occupa di sostenibilità ed economia circolare per diverse istituzioni ed enti di ricerca. Dall’altro è un musicista, che ha frequentato il Berklee di Boston (una delle scuole di musica più importanti al mondo) specializzandosi in musicologia, compositore di musica ambient ed elettronica con il suo progetto Giadar.

«Viviamo in una società che ha progressivamente smarrito la capacità di ascoltare», scrive. «Il nostro ambiente acustico è stato colonizzato da un costante bombardamento sonoro che anestetizza i sensi e trasforma l’esperienza del mondo in un’interferenza da ignorare. È il riflesso di un’umanità disconnessa, un segno tangibile della frattura tra uomo e natura». E in tutto questo, «la musica, un tempo espressione collettiva di emozioni e narrazioni condivise, è oggi una colonna sonora preconfezionata da algoritmi che prevedono le nostre preferenze prima ancora che ne siamo consapevoli».

Abbiamo dimenticato l’aspetto rituale, magico, cosmico, della musica che, scrive Giardi citando Herbert Spencer, è «un’esigenza emotiva, un grido dell’anima oltre le barriere del linguaggio verbale», che non riesce a esprimere la meraviglia e lo spavento che le prime civiltà possono aver provato di fronte al mondo. Il canto, il ritmo, il fischio, nascono imitando la natura, seguendo il tempo del respiro, i versi degli animali, i rumori delle piante e dei fenomeni atmosferici, il vento, la pioggia, il temporale.

Di più: tutto questo non sarebbe che il riflesso di come funziona il cosmo, che è costituito dalle vibrazioni della materia, da atomi in continuo movimento e risonanza musicale. La musica dunque non sarebbe che la chiave interpretativa che l’essere umano ha scoperto per comunicare con l’universo che ci circonda, che ci forma, di cui siamo un elemento in relazione con tutti gli altri.

Dalle Quattro stagioni di Vivaldi, all’ambient di Brian Eno, sino al field recording che raccoglie e rielabora i suoni della natura, la musica ha spesso cercato di ritornare a questa consonanza costitutiva.

Tornare alla natura

È un patrimonio che va salvaguardato, mantenuto vivo, a disposizione di tutti. Giardi parte da alcuni temi dell’ecologia acustica e introduce il concetto di memoryscape, un paesaggio sonoro che rivela l’identità stessa di un luogo, di uno spazio, incorporando elementi distintiti e peculiari di un mondo che rischia di andare perduto per sempre.

«Il suono è memoria, è radicamento, è testimonianza», scrive. I suoni di un bosco, degli animali che si muovono in un ecosistema, ma anche i canti, le campane di una chiesa, sono componenti identitarie. Lasciarle andare vuol dire smarrirci, perdere l’orientamento, dimenticare chi siamo.

Accade tanto nel nostro legame con l’ambiente, con paesaggi ed ecosistemi che mutano a causa dell’incessante azione dell’uomo, quanto con i suoni che ci costituiscono, senza esserne nemmeno consapevoli.

Con piglio programmatico, Giardi invita a salvaguardare entrambi, ambiente e suoni, e partire dalla memoria musicale e sonora può essere il modo per riscoprire un legame con la natura che abbiamo di sicuro atrofizzato, quando serve rinaturalizzando quel che stiamo perdendo. È di certo un punto di partenza, per provare ad affrontare in modo nuovo la crisi ecologica in cui ci troviamo immersi.

Gli stessi temi sono al centro del festival Blues in campus, che inaugurerà oggi a Villa Mondragone, nel comune di Monte Porzio Catone in provincia di Roma. Organizzato dall’università di Tor Vergata, il festival mette insieme in modo inedito musica blues e tematiche ambientali.

Per tutto il weekend saranno molti gli ospiti, da musicisti importanti come Demetria Taylor e Pablo Mezcla, a scienziati come il climatologo Luca Mercalli, ad esperti dell’Agenzia spaziale italiana, fino al compositore Giorgio Battistelli, che terrà una conferenza sul rapporto tra musica e crisi ambientale (tra le sue molte opere c’è Co2, commissionata dal teatro La Scala nel 2015). Se non riusciamo ancora a trovare una soluzione, che sia la musica a venirci in aiuto. Chissà, forse anche a salvarci.

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