Di cosa parliamo quando facciamo riferimento all’idea di «missione»? L’impulso alla propagazione della fede appartiene davvero all’intima natura della vita cristiana, come scrisse Giovanni Paolo II (1978-2005) nell’enciclica Redemptoris Missio? Solo rispondendo alla prima domanda potremo affrontare la seconda.

Secondo il teologo gesuita Michael Sievernich il cristianesimo è una «religione universale che si rivolge in linea di principio a tutti gli uomini (e le donne, non sarà superfluo precisare) e che può mettere radici in tutte le culture, [e] ha avuto fin dall’inizio una dimensione missionaria».

Eppure, il termine «missione» fa la sua comparsa nei documenti dopo parecchi secoli di storia del cristianesimo. Per questa ragione, di missioni propriamente dette possiamo parlare solamente dal momento in cui esisterà un’organizzazione che le regoli, secondo un programma definito. Succederà appena nel 1622, con la costituzione della congregazione per la propagazione della fede (De Propaganda Fide).

Questo non significa che la storia delle missioni inizi in piena età moderna? Parte da quanto sappiamo della vita di Gesù e degli apostoli, perché la nascita stessa del cristianesimo è indissolubilmente legata all’idea della sua propagazione.

Definizione

Per ragionare sulle dinamiche storiche servono le definizioni e propongo di intendere come missione la diffusione del messaggio religioso cristiano da parte di individui (missionari) che si muovono perché hanno ricevuto un incarico dai propri superiori, ma anche per scelta autonoma.

Questo afflato verso la conversione del prossimo, che si presume essere nell’errore per ignoranza o malafede, non è proprio di tutte le religioni. Per esempio, manca in quelle di gruppi tribali e nazionali, oppure in altre semplicemente disinteressate al proselitismo. È presente, invece, in quelle a carattere universalistico, tra le quali va senza dubbio contato il cristianesimo.

Prima della sua apparizione, il concetto di propagazione della fede non sembra avere avuto alcun peso nella cultura pagana (quindi né cristiana, né ebrea) dominante nei luoghi della iniziale espansione della religione basata sugli insegnamenti di Gesù. Non era certo diffusa l’opinione che esistesse un’unica valida credenza, quindi l’idea dell’apostolato non aveva motivo di esistere: gli dei si potevano aggiungere, non erano in alternativa. Il concetto di conversione – come la intendiamo noi – era infatti estraneo alla mentalità greco-romana, le cui religioni erano legate in maniera indissolubile alla vita domestica e civica: per il fatto stesso di appartenere a una comunità (familiare, cittadina) era naturale onorarne gli dei protettori.

Stabilita questa inevitabile fedeltà, ciascuno era libero di adottare il pantheon che preferiva: il politeismo, infatti, di norma non prevede la necessità di fare proseliti e guarda con favore alla comparsa di divinità sconosciute. Per il monoteismo il discorso è completamente diverso. Fu questa una delle grandi rotture portate dalla propagazione della fede cristiana, per la quale veniva meno tale libertà e l’adesione alla nuova fede comportava l’abbandono di quella vecchia; nessuna coesistenza era possibile.

Mancanze

La storia delle missioni cristiane è in grandissima parte una storia di disuguaglianza. Per un giusto approccio alle vicende dell’evangelizzazione, che non di rado fu forzata, è necessario tenere presente il punto di vista di chi la missione la subì, ma la cosa non è affatto facile perché ci mancano i documenti. O meglio, ne possediamo pochissimi.

Ciò che noi sappiamo soprattutto per i secoli e per i luoghi più remoti è il frutto delle preferenze di chi ha costruito le fonti, come anche di fattori che ne hanno permesso la conservazione. Tali preferenze hanno di rado implicato la voce degli evangelizzati. Facciamo un esempio.

Davanti alla condanna pronunciata dai missionari venuti dalla Spagna, un amministratore del culto della religione diffusa tra gli inca si sorprese: perché il vino, la bevanda alcolica dei cristiani, era considerato sangue di Cristo e la chicha, bevanda sacra per la propria religione, condannata invece come dono del demonio? Perché la prima portava alla connessione con il divino e la seconda all’ubriachezza della dannazione eterna? Siamo a conoscenza di questi dubbi grazie alla sensibilità di un cronista (Nicolás Durán Mastrillo, †1653), che avrebbe potuto evitare di riportare il punto di vista indigeno (come molti hanno fatto), limitandosi a parlare della necessaria condanna dell’ubriachezza precristiana.

Quando l’incontro con l’altro ha l’obiettivo dell’evangelizzazione, chi porta il messaggio cristiano si pone inevitabilmente la domanda di come sia possibile affermare la propria identità allo scopo di inserirla in un contesto religioso e culturale differente, molto spesso radicalmente differente.

Le risposte sono molteplici: si può rifiutare completamente il contesto, come al contrario cercare di integrarvisi, con tutte le soluzioni che si posizionano tra i due estremi. Ed è proprio in questa vasta gamma di possibilità che la storia delle missioni cristiane (non solo cattoliche) si colloca, in difficile equilibrio tra l’adattamento e la presa di distanza.

Propagare la fede

Come anticipato, con la forzatura propria di ogni cronologia così precisa, possiamo far risalire al 1622 l’istituzionalizzazione del concetto di missione. È l’anno di fondazione della congregazione De Propaganda Fide, incaricata dal papa di dirigere le iniziative che miravano a diffondere la pretesa «vera fede» fra quelli che i cattolici consideravano «scismatici» (ortodossi) ed «eretici» (protestanti), nonché tra i «pagani», come venivano indicate le popolazioni dei continenti extraeuropei.

Il concetto di «pagano» ha una sua storia, che va delineata. In epoca pre-cristiana, il «paganus» veniva identificato come un membro della società destinato a rimanere in secondo piano: il civile contrapposto al soldato regolare, il milite di grado inferiore paragonato all’ufficiale.

Pagi erano però anche i villaggi e pagani i loro abitanti, che si prese a identificare con i non-cristiani in quanto, almeno per i primi secoli della sua storia, la fede in Gesù si era propagata soprattutto nei centri urbani. Fu un autore del V secolo, Paolo Orosio (†420), a certificare questa usanza, dando definitivamente al termine la connotazione ancora oggi più comune: scrisse una storia contro i pagani (Historiarum adversus paganos libri septem) identificandoli come gli adepti della religione tradizionale, quella che era ancora diffusa proprio nei villaggi, dove vivevano le persone prive di cultura.

Il significato di «missione» avrebbe ben presto compreso l’idea dell’essere mandato anche all’interno della propria area geografica di riferimento, nei villaggi più isolati. Il XVII fu infatti non solo il secolo dei grandi viaggi, ma anche quello della cercata ri-evangelizzazione dei cristiani non-cattolici e dei cattolici digiuni dei principi fondamentali della dottrina.

Non vi era in questo nulla di inedito, se non la codificazione di un nuovo termine, che nei decenni successive sarebbe stato fatto proprio da tutte le confessioni cristiane.

Il termine missio, derivato dal verbo mittere (inviare) si riferiva per di più a una nozione familiare al cristianesimo delle origini, utilizzata per richiamare l’idea teologica dell’invio del Figlio da parte del Padre nella traduzione latina della Bibbia.

Da quell’originario invio si erano poi generati quello dei discepoli su mandato di Gesù e quello trinitario dello Spirito Santo da parte del Padre, nel nome del Figlio. Ad apostoli e discepoli avrebbero poi fatto riferimento donne e uomini che hanno contribuito a scrivere una storia tuttora in divenire. 


Quello che avete appena letto è un estratto da Storia delle missioni cristiane di Claudio Ferlan edito da Il Mulino (pp. 248, euro 21,85)

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