Ho passato almeno un decennio della mia vita a cercare una comunità speciale di cui far parte. Dall’adolescenza in poi, gruppi spirituali, centri internazionali dediti ai nuovi culti – Kabbalah, buddhismo giapponese, severissime scuole di yoga. Periodicamente, entrando e uscendo, io ho cercato di essere assorbito, di scomparire in una setta.

Così, quando ho saputo di SanPa, mi sono precipitato davanti allo schermo. Tutte e cinque le puntate di fila, senza pause. E poi di nuovo, una seconda volta.

Perché, sebbene non conoscessi poi molto della comunità terapeutica di Vincenzo Muccioli – solo qualche annebbiata citazione risalente all’infanzia rozzanese, mia madre che si fa greve in volto, maschera di pietà, e dice: quello è finito a San Patrignano –, io intuivo, sentivo il richiamo di qualcosa che conosco bene. Che mi attrae e, per ragioni molto personali, mi inquieta.

Ho amato SanPa, esattamente come 2018 amai Wild Wild Country, la docu-serie su Osho la sua comune fondata in Oregon che SanPa vistosamente rievoca, e Going Clear, il documentario sui fuoriusciti da Scientology.

Qualcuno obietterà che non sono la stessa cosa: a San Patrignano ci si andava per un problema, un bisogno vitale. Ma in tutte le comunità speciali si finisce per un bisogno, più o meno oggettivo. Una malattia, un lutto, un senso di vuoto. Si parte da lì.

Tutte le sette sono “comunità terapeutiche”. E poi non credo che limitarsi a parlare di “persone fragili”, in emergenza, ci permetta di capire davvero cosa le sette dicono di noi, anche solo come spettatori (c’è differenza tra adepti e spettatori?).

A lungo ho cercato di far parte di una setta, provandone diverse e sviluppando forme di dipendenza di vario grado, più o meno invalidanti, ma non ci sono riuscito: i tratti che me l’hanno impedito negli ultimi tempi m’hanno aiutato a capire un po’ di più perché avessi questo desiderio e anche perché le storie che hanno a che fare con le sette calamitano sempre l’attenzione.

Certo il successo di SanPa ha vari motivi: riporta l’attenzione su una vicenda di cui non si parlava più, fa i conti con una stagione sociale e mediatica del nostro paese, e in generale, di per sé, è un superbo lavoro di scrittura.

Ma credo che siano i tratti settari della comunità riminese a costituire il centro pulsante dell’interesse collettivo. Il fondatore di San Patrignano non si è limitato infatti, come molti dicono, ad «aiutare migliaia di ragazzi»”: Vincenzo Muccioli ha individuato nel processo di disintossicazione un elemento formidabile di affiliazione per il suo grande sogno di imprenditoria sociale. E le sette nascono sempre dal grande sogno di un uomo, il fondatore, il capo, il guru. Si chiami Ron Hubbard, Bhagwan Shree Rajneesh o, appunto, Vincenzo Muccioli. Ma perché le storie sulle sette hanno sempre così tanto successo?

Io credo sia perché queste formazioni sociali, di per sé, si fondano su una struttura narratologica eccezionale: sono miniature più netta e incisiva, narrativamente perfezionate, della società. I loro confini rigidi, precisi, creati dall’adesione a codici e forme elaborate di disciplina, generano parabole dall’alto potere affabulatorio. Io sono una persona oscillante, che fatica, ha sempre faticato a darsi una forma univoca, e proprio per questo subisco il fascino della disciplina, delle identità forti, uniche, svettanti.

Nei miei esperimenti con questo tipo di gruppi ho digiunato fino a perdere i sensi, versato quote fisse degli stipendi che non avevo, ho sviluppato e visto sviluppare attorno a me forme di accanimento e compulsione e dipendenza dagli incontri, dalla recitazione di mantra, dalla pratica fisica. Ho visto persone, in gruppi dediti allo yoga, impiantarsi protesi per poter riprendere il sogno di avanzamento spirituale nonostante corpi giunti allo stremo, o smettere di mangiare per diventare leggerissime, e guadagnarsi, grazie a corpi scheletrici, le meravigliose nuove posizioni che il grande maestro avrebbe finalmente insegnato loro.

1995 Vincenzo Muccioli (Rimini, 6 gennaio 1934 – Coriano, 19 settembre 1995) è stato un imprenditore italiano, fondatore della Comunità di San Patrignano dedicata al recupero delle vittime della tossicodipendenza Nella foto: i funerali di Vincenzo Muccioli

Le sette sono degli eccellenti diorami per osservare il potere, le dinamiche comuni di interazione sociale in esse si coagulano, si rapprendono in forme più assolute rispetto a quel che succede fuori, nel mondo. C’è un capo – da rabbonire, ingraziarsi, compiacere – e c’è il suo cerchio magico. Ci sono i novizi, i fuoriusciti, i pentiti, quelli che fanno ritorno.

Come si vede bene anche in SanPa nelle sette le persone si fissano in dei ruoli, le identità si sclerotizzano: non c’è spazio per le zone mediane, narrativamente tiepide. Se è vero che la famiglia è il primo luogo in cui noi facciamo esperienza del potere, le sette spesso prolungano questo tipo di esperienza nell’età adulta in forme che non riesco a non trovare, ancora oggi, affascinanti.

Le comunità come San Patrignano o Rajneeshpuram di Osho offrono allo sguardo – degli adepti ma anche di chi oggi guarda o ascolta – una direzione chiara, totalizzante. Le persone che ne fanno parte perseguono un’evoluzione precisa, scandita in passi necessari per evolvere.

Sono stato una persona estremamente indecisa su cosa essere/fare nella vita: un tratto questo che ricorre anche nei fondatori delle sette, come emerge proprio in SanPa.

Tutto c’è già nella prima cellula dell’organismo: Muccioli aveva bisogno di un grande progetto, di un ruolo nel mondo. La vita così com’è può essere troppo vasta, informe, destabilizzante: le sette forniscono una funzione psichica di contenimento. E molta, molta energia.

Altro motivo di attrazione verso le sette è il cortocircuito tra i fini (nobili) e le conseguenze di questi fini: estremo controllo, umiliazione, violenza. La domanda che ha girato, parlando di SanPa, è stata: fino a che punto sei disposto a spingerti per ottenere il bene?

Una domanda però non del tutto a fuoco, nata da coordinate esterne alla comunità. Le sette infatti riscrivono la realtà, ricodificano bene e male.

Le sette non vogliono il bene di nessuno: vogliono autoalimentarsi, continuare a esistere. Una mia insegnante una volta, di fronte alle mie perplessità per alcuni episodi scioccanti a cui avevo assistito, perplessità che mi hanno portato di lì a breve a essere allontanato, mi disse: «Vedi, quando io ho deciso di entrare a far parte di questo gruppo ho deciso che mai il mio interesse personale avrebbe avuto la priorità rispetto a quello comune». Il che si è tradotto nella connivenza con l’abuso in nome dell’ «armonia della scuola».

Le facoltà individuali – percezione del bene e del male, dignità, rispetto di sé – in una setta non contano più. Si entra in una dimensione nuova.

La fascinazione tumultuosa nei confronti di queste comunità per me forse ha iniziato a incrinarsi lì.

Il mio (parziale) risveglio c’è stato quando s’è fatto strada in me il sospetto che le sette siano sempre progetti di controllo dell’altro che strumentalizzano il nostro bisogno di finire in una storia vivida, magari un po’ epica.

La religione, la pratica spirituale, la cura, il processo di disintossicazione sono pretesti, sono l’epifenomeno. In realtà esse mirano a disporre di un bacino di risorse viventi, e questo è un elemento ricorrente sia nella San Patrignano delle origini, che in Osho e Scientology.

Forse ho smesso di desiderare così tanto di far parte di una setta quando ho cominciato a capire che anziché darti un’identità speciale, più originale, le comunità di questo tipo mirano a uniformarti, a renderti materiale a disposizione – da far brillare o incatenare, chiudere nel tino – della propria grande mitomania. Le sette ti costringono a sognare, con le buone o con le cattive, il sogno di qualcun altro.

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