Una storia che comincia e finisce nel nome di una madre ammalata, ma non c’è nulla di patetico. È un libro che non chiede mai compassione e che fa rimpiangere di non essere più di sé stesso
Lo sbilico di Alcide Pierantozzi (Einaudi) comincia e finisce nel nome della madre; la madre ha un tumore, il figlio che scrive in prima persona è omosessuale – l’equazione che viene subito in mente è: romanzo patetico, intimista. E invece no.
Intanto perché il libro è pieno di forza proiettiva a vari livelli, come vedremo, poi perché è un libro che non chiede compassione, mai; infine, perché l’omosessualità vi ha una parte decisamente marginale.
All’inizio quasi non se ne parla, poi entra sì e no nel quadro clinico; più che un orientamento sessuale minoritario è la percezione di un limite sensoriale («un’esperienza che mi ha precluso alla vista ravvicinata delle mucose femminili»). Tutto molto concreto, materico.
Il romanzo di Pierantozzi non è nemmeno il diario di bordo di un «disagio psichico», come sostiene il risvolto di copertina: non assomiglia né a Berto né a Ottieri, e tanto meno a Strindberg o a Gogol o a Lu Xun.
Le descrizioni
Ma certo non posso recensirlo limitandomi a dire quel che il libro non è. È ricco di descrizioni precise e crudeli, soprattutto quando racconta dell’infanzia passata in campagna e i vari modi per uccidere gli animali, con scene che riportano a un verismo zoliano.
Lo sgozzamento del coniglio è memorabile, come il pastone di gesso e sale fatto mangiare ai topi così che poi, bevendo, si cementificassero dall’interno. Le descrizioni devono essere minuziose perché sono una sfida («la violenza è la base della realtà, ma io alla realtà ci credo poco»). L’energia linguistica è pari alla precisione descrittiva («nonna insaponava i piatti che facevano un guaito di cane sofferente sotto la spugna»); si sente la lezione ben appresa dell’espressionismo lessicale («caldo scalmanato», «pensieri podalici», «dolore caino»), con punte di sinestesia («l’odore ricciolino dei trucioli di legno»), oltre che un ammicco al surrealismo classico («un gigantesco pesce di pietra al posto della Vergine»; «la sigaretta a metà mi sembra il prete vestito di bianco»).
Si azzardano neologismi che sono riprese ultra-colte (come il dantesco «incielarsi»); solo poche volte l’eccesso di preziosismo risulta non funzionale e troppo "poetico” («settembre è una disgrazia»).
Il Negazionista
Pierantozzi costruisce un suo mito (che forse deve qualcosa al Sartre di Les mots): un furgone carico di libri pencola sull’autostrada, un volume cade dall’alto fino a lui bambino ed è un dizionario dei sinonimi e dei contrari. Da allora userà le parole come un amuleto contro la paura, ma sempre temendo che le parole stesse gli costruiscano intorno una falsa coscienza («la scrittura rischia di legittimare i disastri che combino»).
Da tempo si considera «uno scrittore in liquidazione», da quando le sopraggiunte allucinazioni gli hanno dimostrato che i fantasmi sono più forti della realtà («la pugnalata inferta dall’ombra di un coltello»).
La sua pazzia, o meglio, il suo intermittente delirio non ha l’evanescenza della nevrosi ma è tutto corporale, tangibile: anche la psiche diventa corpo, si sente «leccare da una lingua l’interno dello stomaco».
Lo stesso amore materno assume la forma di continue maniacali ispezioni corporee, che lui ostinato pretende come un infante di quarant’anni. La madre costituisce una cosa sola con lui, mentre il padre è chiamato “il Negazionista” perché nega il disastro della propria famiglia – si chiude nel non voler sapere, la moglie malata, un figlio (forse) handicappato, un altro nato deforme e morto in fasce. Il libro è qualcosa di più e di meno di un’autofiction: Pierantozzi non ha tempo di inventare una storia più universale mentendo, perché ha un lavoro da fare o, se vogliamo, una missione da compiere.
I referti medici che testimoniano il suo essere in bilico (o in sbilico) tra sanità e follia sono riprodotti fedelmente (neutri nel loro linguaggio tecnico pur nascondendo la chiave narrativa del libro, che una vera narrazione fino alle ultime pagine pare non avercela). Il lavoro da fare è, dicevo, resistere alla perdita della realtà; anche se poi lui, come abbiamo visto, a questa benedetta realtà pare non tenerci così tanto.
Sono piuttosto i "normali” quelli che pensano di viverci dentro e non si fanno domande («gli uomini che non si voltano», direbbe Montale); lui si sente «in un avamposto della realtà» da cui se ne può osservare l’inconsistente impotenza; quando non dorme nel lettone con mamma dorme col proprio cane, «al riparo dal mondo, lontano dal grande avvenimento della realtà». Ironia e sarcasmo: la sua anomalia diventa un vantaggio. Lui forza le allucinazioni volontariamente («devo sempre essere io ad aiutare i medici») perché considera la realtà «una prova da superare».
Lo sbilico, nonostante le apparenze, è un romanzo politico: parla della fine del Reale in seguito alla sparizione dei Padri (del Nome-del-Padre simbolico, avrebbe detto Lacan). Questo è il nuovo realismo, l’unico possibile all’epoca del web: «Ho sempre pensato che lo scopo della scrittura fosse interrogare la realtà in cui viviamo – non di mettere in dubbio la realtà in quanto tale». Lo scrittore in liquidazione scavalca l’attitudine del romanziere per farsi saggista di sé stesso.
Ma il lavoro non è questo soltanto, teorico: c’è da affrontarne uno più concreto, da restauratore o addirittura da illusionista. Nella prima parte del libro, tra gli animali indimenticabili c’è una gatta pazza, spelacchiata e dallo sguardo umano, che si divora i figli appena li ha partoriti. Il fratellino deforme è morto quando il piccolo Alcide aveva quattordici mesi: la madre andava al cimitero portandolo con sé e la montata lattea premeva appena lei vedeva la foto del bambino sulla tomba.
Il linguaggio dei referti
Il figlio vivo calpestava il latte inutilmente sparso a terra e destinato al figlio morto; la madre lo guardava «con gli occhi di una gatta pazza», pensando che «siccome mio fratello era un mostro, ero un mostro anch’io».
Paura di essere divorato come i gattini, la sua vita come un continuo sporgersi tra vita e morte. Dopo qualche anno arriverà un terzo figlio, non voluto dal padre e dai nonni per paura che fosse destinato anche lui a morire o a uccidere la madre di parto («trovati un altro uomo, perché io non sarò il tuo assassino», le dice il Negazionista, poi fanno un patto, «un solo rapporto, una sola volta, e vada come vada»).
Miracolosamente il bambino nasce sano, psicologicamente solido e anzi aiuta Alcide nelle necessità quotidiane, sia pure brontolando. Da qui nasce il progetto finale del libro.
I referti medici, dicevo, contengono nel loro linguaggio anodino una chiave per la soluzione narrativa: «il paziente, trentanove anni appena compiuti, è il primogenito di una ‘"fratria” di tre, di cui il secondo è deceduto». Il compito, anzi la missione, che Pierantozzi si assegna non è nientemeno che questa: ricomporre la “fratria” dispersa.
È necessario, in questo romanzo che non è una fiction, mentire un’unica volta sul fratellino morto («aveva la mano attaccata all’anca», riferisce il Negazionista); il suo cadavere è stato dissezionato dall’autopsia e poi semplicemente “ricomposto” – ora al romanzo spetta «ricucire mio fratello dopo quarant’anni».
Restauro, dunque, ma ancora non basta. La parte più commovente del libro è il finale: quando andavano al cimitero, o anche a casa in cucina, lui e la madre vedevano una farfallina minuscola come quelle che nascono dai vermi della farina o delle muffe, e la madre si illudeva che fosse il figlio morto «che ci è venuto a trovare, ci saluta».
Esiste un insetto chiamato psocottero o tarma della carta: i fogli stessi, materiali, cartacei, su cui Pierantozzi sta scrivendo potrebbero col tempo ospitare uno di questi insetti, e dalla larva potrebbe nascere una farfallina – in questo modo «quella che gli psicanalisti definiscono una "fratria” di tre figli tornerà perfettamente intatta a casa da mamma, così come doveva essere, e la storia finalmente potrà dirsi conclusa».
Il vero esito del libro è un’opera di resurrezione quasi alchemica, rimettendo in sesto il passato. Ma l’illusionista ha svelato il proprio trucco, il romanzo resterà soltanto un romanzo. Forse, far rimpiangere di non essere più di sé stesso è tutto quello che il romanzo oggi può fare.
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