In Occidente il fallimento è spesso considerato una macchia indelebile, un segno di incapacità e una testimonianza del nostro valore diminuito. Non è mai semplice confrontarsi con la sensazione di sentirsi inadatti, una sensazione che reputo però necessaria all’evoluzione personale di ogni essere umano.

L’errore, il fallimento, dovrebbero essere la terra lasciata a maggese su cui poi nasceranno frutti sani, saporiti, utili. Invece no, il successo, il potere, o almeno la loro narrazione stereotipata e patologica, forgia le società capitalistiche accompagnandole verso il dirupo in cui il fallimento è il peccato originale. La narrazione del successo è una calza smagliata, un’illusione ottica, un lenzuolo ingiallito perché lasciato troppo tempo steso al sole.

Perché? Perché sebbene la narrazione preveda in minima parte, come nella favola antica, la presenza del nemico e della difficoltà, descrive il successo offrendone dei connotati deformi: quelli del risultato facile, dell’intoppo, dell’impedimento, superati con una giravolta.

Da quando, molto tempo fa, ho iniziato ad interrogarmi sui concetti di complessità ed errore, sapevo che sarebbe arrivato il momento di scontrarmi – dato che è un argomento che prevede l’enfasi di un corpo a corpo – con il tema della verità.

Verità: un termine che sembra definire qualcosa di stabile e immutabile, eppure, nella pratica, si dimostra incredibilmente sfuggente e delicato.

Da bambini ci insegnano che è vero semplicemente ciò che è reale, ciò che possiamo toccare e vedere. Ma crescendo ci rendiamo conto che la verità è un concetto che cambia forma a seconda di chi la racconta, a seconda del momento in cui viene raccontata e del potere che la sostiene.

La lettura di Foucault mi ha aiutata ad allargare la mia riflessione e a prendere maggiore consapevolezza e confidenza con il tema. Foucault non ci ha offerto una definizione semplice o rassicurante della verità, ma ci invita a esplorarla come un concetto storico e sociale, profondamente intrecciato con il potere e il discorso.

Sostanzialmente: la verità non è qualcosa di fisso o di universale, ma piuttosto una costruzione che varia a seconda del contesto storico e sociale. Ciò che consideriamo vero in un certo periodo della storia non è necessariamente vero in un altro, e questo dipende dalle pratiche discorsive, dalle istituzioni e dalle relazioni di potere in gioco.

Mi ha fatto pensare a come certe “verità” accettate oggi potrebbero essere completamente messe in discussione domani. D’altra parte, noi tutti siamo testimoni di un agghiacciante periodo di revisionismo storico, in cui persino il fascismo non solo torna di moda, ma diventa nuovamente modello, riferimento. Foucault parla di “regime di verità”, un concetto che, a suo tempo, mi ha aperto gli occhi su come la verità sia controllata e manipolata.

Ogni società ha il suo regime di verità, un sistema che stabilisce cosa può essere considerato vero e chi ha il diritto di definirlo. Da qui la conseguente conclusione che certe istituzioni come la scienza, la medicina, o persino l’educazione e la comunicazione, abbiano il potere di decidere quali verità siano accettabili e quali no.

Come se la verità fosse una moneta, il cui valore è stabilito da chi la conia. Ma ciò che del suo pensiero, secondo me, va conservato con maggiore cura è il concetto di “discorso”, pratica che per Foucault rappresenta il metodo attraverso cui si producono, proprio come un manufatto, conoscenza e verità.

Il potere, in questa visione, non è qualcosa che si possiede, ma qualcosa che si esercita attraverso il discorso. Chi lo controlla controlla la verità. Quando per la prima volta ho incontrato questa teoria ero poco più che una giovane ragazza. Lì, ho iniziato a riconsiderare il ruolo dei media, della politica e di tutte quelle istituzioni che contribuiscono a plasmare la nostra percezione della realtà quotidiana.

La verità non è mai neutrale. È sempre intrecciata con il potere, con l’interesse di chi controlla il discorso. Questo mi ha portato ad assumere una posizione maggiormente critica nei confronti delle informazioni che mi vengono presentate ogni giorno, a chiedermi sempre: chi ha interesse a farmi credere questa verità? Quali altre voci sono state silenziate?

Poi ci sono le altre domande da porsi: perché la verità può essere considerata assoluta o soggettiva? Quali sono i meccanismi cognitivi che collegano l’interpretazione di ciò che riteniamo vero alla nostra esperienza personale? Ci arriverò. Intanto teniamo a mente che nell’inevitabile e ingenua ricerca della verità, l’errore ci scorta come un compagno di viaggio molesto ma inevitabile.

Se tutti noi fossimo consapevoli che l’errore cognitivo è uno dei meccanismi principali che determinano le nostre scelte, forse saremmo maggiormente in grado di arginare l’effetto degli stereotipi, dei pregiudizi, delle credenze che inquinano il nostro sentire.

Estratto dal libro di Simona Ruffino Non tutto è come appare (Apogeo, 2025). Sabato 17 maggio l’autrice sarà al Food & Science Festival di Mantova, in piazza Mantegna alle 16

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