Primavera del 1975. Nella foto si vedono due uomini che osservano il paesaggio della Death Valley, in California: in lontananza le Panamint Mountains, più vicine le dune di Zabriskie Point. Un terzo uomo, che si è spostato un po’ più in alto di loro, forse proprio per fotografarli, li inquadra mentre lasciano vagare lo sguardo sul paesaggio lunare, le formazioni di terra bianca, sabbia e roccia che si stendono a perdita d’occhio. Il fotografo si chiama Simeon Wade, ha 36 anni e una carriera accademica appena assicurata in una piccola ma rispettabile istituzione di ricerca, la Claremont Graduate School. Uno dei due soggetti della foto che scatta è l’amore della sua vita, Michael Stoneman, musicista e compositore. L’altro soggetto è Michel Foucault.

Il piano

Simeon Wade e Michael Stoneman si amano da quasi un anno, un colpo di fulmine nato in uno dei famosi – o malfamati, che dir si voglia – bagni pubblici di San Francisco. Dopo il sesso, i due erano finiti a parlare di musica, Chopin e Rachmaninov. Presto si erano trovati a vivere insieme, dapprima dormendo nello studio di Simeon al college perché non avevano i soldi per un affitto, poi in un appartamento con tanto di pianoforte gran coda, provando tutte le droghe possibili, ascoltando Stockhausen e Boulez, leggendo Laing, Merleau-Ponty, Artaud, mescolandosi a una comunità di intellettuali, gay, artisti, dropout, l’ultima efflorescenza della summer of love prima che l’inverno reaganiano (con la fatale tempesta dell’Aids) arrivasse a cambiare per sempre anche la California. 

Simeon Wade venerava l’opera e il pensiero di Foucault da quando, nove anni prima, si era imbattuto nella Storia della follia nell’età classica durante il suo dottorato a Harvard: «Consideravo Foucault il più grande pensatore del nostro tempo, forse di tutti i tempi. Paragonarlo a qualcun altro era come accendere una candela sotto il sole meridiano». Dopo Harvard, Simeon aveva fondato a Claremont un programma dottorale di Studi Europei, interamente basato sugli studi di Foucault, Deleuze, Sartre e compagnia francese cantante. Quando aveva saputo che il suo idolo sarebbe venuto in California a insegnare, aveva telefonato al dipartimento di francese di Berkeley, dove gli era stato gentilmente detto che, se voleva invitare Foucault a Claremont durante la sua visita californiana, poteva scrivere direttamente a Foucault medesimo, ecco qui il suo indirizzo di casa a Parigi.

Simeon aveva appeso con mano tremante il foglietto con quell’indirizzo alla parete del suo studio, «come un monaco medievale avrebbe potuto incidere la strada per Roma nel muro della sua cella», si era fatto coraggio, aveva scritto. E la risposta era arrivata: Foucault non escludeva di poter venire, ma si sarebbe organizzato solo una volta arrivato in California. Suggeriva, dunque, di scrivergli direttamente a Berkeley. Simeon lo fece, azzardando un invito non solo per un seminario al programma di Studi Europei, ma anche per una gita nella Death Valley. Perché Simeon aveva un piano.

Poco prima del giorno del Ringraziamento del 1974, era stato Michael a portare Simeon nel deserto della Death Valley, con i suoi incredibili paesaggi e la sua mistica atmosfera, e insieme avevano ingerito cose, visto cose, capito cose, fatto cose – insomma, avevano «sperimentato una forma di estasi e di illuminazione che non avevo mai nemmeno sognato potesse esistere». Eccolo, il piano di Simeon: far provare a Foucault quello che aveva provato lui. L’aspettativa era che una mente eccelsa come quella del filosofo francese, esposta agli effetti miracolosi dell’acido, avrebbe concepito idee e strumenti capaci di provocare una rivoluzione epocale della civiltà occidentale. Pas mal.

Alla lettera indirizzata a Berkeley, tuttavia, non ci fu risposta. Per fortuna saltò fuori che Foucault veniva a Los Angeles per una lezione all’Università di California a Irvine. Simeon, Michael e qualche studente saltano in auto e vanno. Foucault è lì, dal vivo, a pochi metri da loro. A Simeon manca il coraggio, ma Michael prende in mano la situazione: si fa largo tra gli ammiratori, i questuanti, i curiosi e riesce ad attirare l’attenzione del filosofo francese. Se Simeon cerca affannosamente di fargli ricordare il suo nome e le sue lettere, Michael risolve la situazione chiedendo a Foucault se pratichi lo yoga, al diniego di questi replicando: «Pensavo di sì, con un corpo così perfetto». Conclusione: Michel Foucault accetta l’invito, verrà nella Death Valley per il ponte del Memorial Day, il 26 maggio. 

Il trip

E il 26 maggio 1975, eccolo lì, all’aeroporto di Los Angeles. Un breve passaggio a casa, dove Michael suona una sonata di Scrjabin al piano e Simeon spera di fare colpo con tutta una serie di libri piazzata strategicamente in giro per il salotto – il classico luogo comune del primo appuntamento negli anni Settanta, come in Provaci ancora Sam di Woody Allen o in una vignetta di Andrea Pazienza. Un’allusione a “qualcosa di speciale” che hanno preparato per questa gita, un elisir, una pietra filosofale da consumare una volta arrivati. E poi via in auto, verso il deserto.

Simeon pensa che Foucault, con la sua giacca a quadrettoni marrone sul dolcevita candido, i pantaloni attillati bianchi, gli occhiali da sole e la pelata abbronzata, sembri il figlio di Elton John e dell’ispettore Kojack. Non solo lo pensa; incredibilmente, glielo dice. Michel ride. La giornata trascolora in una vera gita di tre amici, fra la naturalezza della conversazione, la vicinanza nell’abitacolo dell’auto che corre per le strade della California, la sempre più evidente armonia di interessi (culturali, politici, sessuali) tra i tre.

«Ricordi mai i tuoi sogni, Michel?», «No, non ci riesco. Provo sempre a ricordarli, ma dopo qualche minuto da sveglio mi sfuggono di mente. E tu, Simeon?», «Io li ricordo sempre. Ultimamente sogno spesso la scena sadomaso di San Francisco», «Ah, sì, ci scommetto!».

«Quali grandi scrittori hanno avuto un’influenza su di te?», «Malcolm Lowry, Sotto il vulcano. E Faulkner, e Thomas Mann è stato molto importante per me quando studiavo a Parigi. Ma Faulkner è il più importante», «Strano, non parli mai di di queste figure nei tuoi scritti», «Non parlo mai delle persone che hanno avuto più impatto su di me».

«No, non ho mai provato l’Lsd. Ne ho avuto l’occasione, ma il mio compagno ha rifiutato e io mi sono adeguato alla sua preferenza».

E ora eccoli lì che discendono le pendici della cosiddetta Tavolozza dell’Artista, colline e collinette di tutti i colori che già di per loro sono un fondale psichedelico, e Michael tira fuori l’acido. Michel sembra esitante, propone di prendere solo metà dose. Gli si fa notare che l’effetto ne potrebbe essere compromesso. Infine si convince, si fa spiegare come metterlo in bocca. E in una mezz’oretta, a passeggio tra dune multicolori, con in sottofondo Three places in New England di Charles Ives che esce dal mangianastri portato da Michael, Michel inizia a sentire gli effetti. Gli amici lo convincono a godersi il culmine del trip a Zabriskie Point. Lì giunti, mentre siamo passati ai Vier Letzte Lieder di Strauss e poi a Stockausen, Michel dice: «Il cielo è esploso e le stelle stanno piovendo su di me. Questo non è vero, ma è la Verità». E poco dopo: «Sono molto felice. Stanotte ho acquisito una nuova prospettiva su me stesso. Ora comprendo la mia sessualità. Inizia tutto con mia sorella. Torniamo a casa». 

Una lunga amicizia

In questi decenni, il trip psichedelico nella Death Valley è stato alternativamente sminuito (se non ignorato) dai biografi e studiosi di Foucault e ingigantito nella sua controculturale importanza da chi ha a cuore l’influenza delle sostanze psicotrope sulla storia della civiltà.

Va detto, immagino lo sappiate, che, nonostante le speranze di Simeon, l’incontro di Foucault con l’Lsd non ha causato una rivoluzione mondiale. Molti studiosi dubitano persino che il trip abbia avuto una qualsiasi influenza sulle sue riflessioni successive, in particolare sulla Storia della sessualità ai cui volumi stava appunto lavorando in quegli anni e che non riuscì a completare prima della sua morte, nel 1984, vittima dell’Aids.

Simeon, invece, non ha mai avuto dubbi: almeno rispetto allo sviluppo del pensiero di Foucault, il suo piano aveva funzionato. Michel glielo aveva scritto: tornato a Parigi, aveva dato fuoco al secondo volume della Storia della sessualità e aveva dovuto ricominciare daccapo, dopo aver vissuto «la più importante esperienza della mia vita».

Ma a noi, affascinati da questo incontro tra persone, più che dalle sue possibili ricadute teoriche, resta qualche ora prima del ritorno di Michel a Berkeley. Il tempo di una lezione magistrale al college di Claremont, e poi di una festa in suo onore. Foucault è l’uomo che tutti vogliono conoscere, tutti vogliono sentir parlare, di cui tutti vogliono sentire l’opinione su qualunque cosa, dalla California («La amo, uno dei posti più belli del mondo») alla Critica della ragione dialettica di Sartre («Non sono mai riuscito a leggerne più del primo capitolo, e non credo che ci proverò mai più»). Michel è infallibilmente amichevole e disponibile, ma non ama affatto essere il centro dell’attenzione e rifugge dai tentativi di Simeon di rimarcare come la sua presenza sia un evento eccezionale per quelli che, di fatto, sono dei suoi discepoli e a cui appare come un’incarnazione miracolosa: il verbo, autore di libri che tutti hanno letto e riletto, che si è fatto carne, nel prato dietro casa.

Il giorno dopo Michel ha l’aereo del ritorno ed è prevista ancora una sessione seminariale con gli studenti al college. Concluso l’impegno accademico, giusto il tempo di sandwich col tacchino, qualche consiglio su come vivere il rapporto di coppia («Siete liberi. Potete restare aperti a una varietà di relazioni più o meno intense che vi arricchiscano l’un l’altro») e la necessità di connettere ciò che si insegna a come si vive («È l’unico modo, il modo greco») e poi in aeroporto. «Abbiamo goduto di molti piaceri insieme» conclude Michel, allontanandosi verso il gate, gli occhi che ancora brillano dei raggi di Venere sopra Zabriskie Point. E se ne va.

Negli anni successivi, mentre Foucault frequentava sempre di più la California, i tre amici si sono rivisti più volte. Qualche settimana dopo la gita alla Death Valley, Michel tornerà a trovarli. Ci saranno passeggiate, bagni in un torrente, chiacchiere intellettuali davanti al fuoco in compagnia di un gruppo di giovani e atletici taoisti californiani. Ci sarà un amichevole rapimento da un convegno per visitare la piccola galleria che i due americani hanno aperto per sbarcare il lunario dopo che Simeon (che ha messo in pratica il modo greco di cui sopra a un grado evidentemente giudicato eccessivo dai suoi colleghi) era stato buttato fuori da Claremont. In quella galleria, ormai senza casa, dormivano anche, sistemati sotto il pianoforte da cui non si erano voluti separare.

L’ultima lettera

Simeon insegnò poi per il resto della sua vita in varie scuole, ma per avere un reddito regolare prese un nuovo diploma e si mise a fare l’infermiere per pazienti psichiatrici. Non smise mai di vivere secondo i suoi principi, alla ricerca della jouissance (una parola che aveva udito per la prima volta, senza capirla, proprio dalla bocca di Michel in quella primavera del 1975), fedele alla linea deleuzian-guattariana dello schizofrenico rivoluzionario, il quale sa che non è lui a essere malato, bensì la società. Sempre insieme a Michael, tra anni più sereni (grazie al lavoro regolare di Simeon poterono addirittura permettersi un secondo gran coda, per suonare insieme) e anni meno sereni, fino a quando il musicista che aveva così affascinato Foucault («Michael è meraviglioso, è un incantatore»), distrutto dai suoi problemi di alcool e di salute mentale, morì su un autobus nel 1998. 

Simeon è morto nel 2017, lasciando dietro di sé un manoscritto in cui raccontava quei giorni capitali che aveva vissuto insieme all’amore della sua vita e al suo maestro – manoscritto che Simeon mandò a Michel, che rispose «Come sarebbe stato possibile non amarti» e che ora è stato pubblicato in molti paesi, ma non (ancora?) in Italia. Si tratta di un racconto vivace e chissà quanto attendibile, tanto più fedele alla realtà di quell’incontro quanto più votato a restituirne l’ebbrezza, più che i dettagli fattuali, e da cui, in ogni caso, abbiamo attinto per questo racconto. Di alcune affermazioni vi sono prove certe, sono rimaste le foto e qualche decina di lettere, conservate per decenni da Simeon. A conferma di molti racconti, invece, resta solo la parola dello schizofrenico rivoluzionario.

Ma ci dovrebbe essere, nel fondo che conserva oggi quelle lettere, anche un’ultima missiva di Foucault, ormai morente a Parigi, in cui Michel chiede ai suoi due amici americani di raggiungerlo portando un’altra dose di Lsd, forse perché voleva finire come Aldous Huxley, con un ultimo, vertiginoso, trip.

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