C’è un momento, a metà della prima stagione de Il problema dei tre corpi, in cui quella che fino a quel momento poteva ancora essere scambiata per una tradizionale storia di fantascienza, prende le forme di un’indagine morale sull’umanità intera: Auggie Salazar, una delle protagoniste, viene convinta a usare una sua scoperta scientifica per un’operazione militare che potrebbe aiutare ad avere un vantaggio sugli alieni, il risultato è che centinaia di persone innocenti vengono trucidate senza pietà.

È un momento spartiacque, in cui veniamo sbalzati dalla nostra confortevole posizione privilegiata, d’un tratto ci troviamo a soppesare la possibilità che la parte per cui stiamo tifando non rappresenti veramente i buoni. Ma non abbiamo davvero elementi per stabilirlo, come non abbiamo elementi per stabilire che gli alieni in marcia verso la Terra siano i cattivi; e allora ecco emergere una possibilità ancora più scomoda: non esistono buoni e cattivi, solo due civiltà diverse che si trovano a competere per la sopravvivenza.

Il problema dei tre corpi è la serie che Netflix ha tratto dall’omonimo romanzo di Liu Cixin, il primo della trilogia Memoria del passato della Terra, Oscar Mondadori, probabilmente la più importante e famosa saga di fantascienza cinese degli ultimi vent’anni.

Parliamo di romanzi che dal 2007 hanno venduto più di otto milioni di copie, una crescita a valanga che negli ultimi due anni ha portato alla nascita di due diverse serie TV, una cinese da 30 episodi uscita nel 2023, e quella prodotta da David Benioff, D. B. Weiss e Alexander Woo uscita lo scorso 21 marzo su Netflix.

A leggere la sinossi ufficiale, pare l’ennesima variazione sul tema dell’invasione aliena: una civiltà extraterrestre sull'orlo della distruzione capta un segnale proveniente dalla Terra e progetta di invaderla. Eppure, a differenza delle tantissime invasioni che hanno tappezzato la narrativa degli ultimi decenni, la saga di Liu Cixin è riuscita sparigliare le carte e a raggiungere un pubblico molto più ampio.

Perché piace

Come ha fatto? Ci sono varie ipotesi in proposito. C’è chi ritiene che il punto di forza consista nel fatto che gli alieni, per una volta, non sono creature bidimensionali, del tutto impenetrabili o pregiudizialmente ostili, ma sono anzi una civiltà complessa almeno quanto la nostra, e Liu Cixin è bravo a farceli conoscere per gradi, proprio come accadrebbe con una civiltà umana.

Qualcun altro, come Jiayang Fan sul New Yorker, ha intravisto in questa schermaglia una metafora del lungo braccio di ferro geopolitico e tecnologico tra Stati Uniti e Cina; e non a torto, considerando che la storia della fantascienza cinese abbonda di racconti in cui gli invasori da combattere sono gli occidentali. Io però credo esista un altro livello di lettura possibile, che comincia ad affiorare proprio nell’operazione militare di cui parlavo a inizio pezzo.

La prima cosa che sappiamo dei Trisolariani (o San-Ti come vengono chiamati nella serie), è che la loro civiltà si è sviluppata in un sistema a tre soli, una condizione che li ha costretti ad abituarsi a una costante precarietà, scandita dall’alternarsi di periodi di stabilità climatica e periodi di autentico caos.

Il fatto di non poter poggiare su condizioni climatiche stabili ha fatto sì che questa civiltà abbia avuto uno sviluppo molto più lento rispetto al nostro. All’inizio della storia sono tecnologicamente superiori, ma nei 400 e passa anni che impiegheranno ad arrivare sul nostro pianeta ci si aspetta che la tecnologia terrestre riuscirà a colmare il divario.

Il concetto di normalità

Non è difficile individuare un parallelo con la nostra situazione odierna. Se la civiltà umana ha potuto prosperare, infatti, è perché a partire dalla fine dell’ultima glaciazione, circa undicimila anni fa, siamo stati benedetti da un periodo di insolita stabilità climatica. L’homo sapiens ha cominciato ad abitare questo pianeta almeno duecentomila anni fa, ma è solo negli ultimi diecimila anni che ha cominciato a coltivare la terra, a stabilire insediamenti duraturi, a costruire infrastrutture logistiche e politiche e a estrarre combustibili fossili dal sottosuolo per ricavarne enormi quantità di energia immediatamente utilizzabile.

Siamo abituati a dare per scontata questa stabilità climatica, e a basare su di essa il nostro concetto di normalità, il problema è che la quantità di CO2 che abbiamo prodotto negli ultimi decenni sta compromettendo questo plateau millenario: il piano si sta inclinando, presto il caos che sta rallentando i San-Ti potrebbe non risultarci più così alieno.

La scena dell’operazione militare inutilmente sanguinaria, dicevamo, ci sbalza fuori dal nostro punto di vista privilegiato e antropocentrico, e così la minaccia aliena diventa il catalizzatore di una riflessione dall'esterno sulla civiltà umana. Visti dall’esterno, appariamo come una specie autodistruttiva, viziata da una condizione di stabilità in cui ha galleggiato per secoli, che ha sviluppato un’abitudine alla prevaricazione e al predominio, sorretta da una pericolosa illusione di superiorità: siamo disposti a fare qualunque cosa, per assicurarci che questa illusione non venga dissipata, anche ad accettare la morte di migliaia di individui innocenti.

E allora ecco che la schermaglia tra terrestri e alieni può essere letta anche come il confronto tra un’umanità futura, che ha ottenuto un’enorme superiorità tecnologica al prezzo di una annichilente instabilità climatica, e l’umanità presente, che ancora si ostina a puntellare una pericolosa illusione di onnipotenza.

C’è un altro momento, altrettanto interessante, nella prima stagione della serie, ed è quando una delle persone che fanno da tramite con gli alieni si lascia sfuggire che gli esseri umani non solo hanno la tendenza a inventare storie, ma anche a nascondere la verità: «Io cerco di evitarlo – dice Mike Evans – però sì, sporadicamente diciamo bugie, in un modo o nell’altro». 

Da quel momento, le comunicazioni tra alieni e esseri umani vengono bruscamente interrotte. Senza preavviso, senza una spiegazione. Ma il messaggio è chiaro: pensavamo di stare cercando una soluzione comune ai nostri problemi, ma finché continuate a raccontarvi favole non c’è niente che possiamo fare per voi.

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