Ho conosciuto Ai Weiwei nella primavera del 2010, quando entrambi stavamo lavorando per la Biennale di Gwangju in Corea del Sud. Io ero commissario per l’Europa della Fiera Internazionale, Weiwei era co-direttore del Folly Project per architettura pubblica, con l’architetto Seung Sang. Ci presentò il presidente della Biennale, Yongwoo Lee.

Cenammo insieme e lui raccontò di come a 16 anni aiutasse il padre Ai Qi, uno dei grandi poeti cinesi del Novecento allora in disgrazia, a pulire le latrine pubbliche di un sobborgo di Pechino. Mi disse che lui si vergognava e che questa esperienza lo aveva colpito profondamente. Le grandi ribellioni partono dalla giovinezza e si sviluppano in età adulta, come si può vedere nella sua produzione artistica matura.

Nei giorni seguenti visitammo il mausoleo ai caduti della rivolta della città di Gwangju, avvenuta nel 1980. Ufficialmente 482 le vittime, ma le cifre non ufficiali parlano di diecimila morti. La Biennale è nata per ricordare quella rivolta che gettò i semi della democrazia in Corea. 

Arte e denuncia

Il suo lavoro aveva già dimostrato un atteggiamento critico in precedenza, ma la mostra Disposition, che curai a Venezia nel 2013, rappresentò una svolta nel suo percorso di artista. L’opera Straight fu presentata nella sua versione più completa rispetto alle precedenti. Fatta con i tondini di ferro che armavano le strutture di alcune scuole nel Sichuan crollate durante il terremoto del 2008 che portò alla morte di più di 5mila studenti, l’installazione era un chiaro atto di denuncia di una cattiva costruzione dovuta alla corruzione.

Ma fu soprattutto con l’opera S.A.C.R.E.D., con la quale affrontò il tema della sua prigionia durata ottantuno giorni in condizioni di forte pressione psicologica, presentata per la prima volta in quell’occasione, che la svolta apparve più chiara. Da allora la sua ribellione divenne sempre più evidente, tanto da farlo percepire come la maggiore coscienza critica che l'arte contemporanea abbia prodotto negli ultimi anni. S.A.C.R.E.D. è composta da sei casse metalliche che contengono ciascuna la rappresentazione dei sei momenti fondamentali della giornata durante il suo periodo di prigionia. Queste fasi della giornata, nell’ordine dato dallo stesso Ai Weiwei sono: il pranzo, l'interrogatorio, la doccia mattutina, la camminata per sgranchirsi all'interno della stanza della prigionia, il riposo notturno e i bisogni del mattino.

Il titolo dell’opera è dato dall’acronimo dei sei momenti: Supper (eating), Accusers (interrogation), Cleansing (shower), Ritual (walking), Entropy (sleep), Doubt (toilet). Ogni cassa ha delle piccole aperture attraverso le quali si possono osservare le scene individuali. Al loro interno le figure dell’artista e dei suoi carcerieri sono alte 110 centimetri. L’incredibile ricchezza di dettagli, che includono anche le etichette dei prodotti per la pulizia del bagno, fa comprendere come l’artista abbia vissuto questa esperienza come un incubo a occhi aperti. Nel suo iperrealismo quest’opera assume tratti quasi onirici, pur essendo molto veritiera.

La mostra rivelò le forti contraddizioni interne alla Cina contemporanea, ma riaffermò anche la figura dell’artista come attore sociale in grado di dialogare e influenzare la società con le sue scelte artistiche. In questo modo Weiwei ha riportato la figura dell’artista al centro della società. Grazie anche alla collaborazione con Greg Hilty e la Lisson Gallery, la mostra ebbe un inaspettato successo che andò ben oltre l’ambito ristretto dell’arte, ottenendo la prima pagina dell’inserto culturale del New York Times e centinaia di altre testate locali, internazionali e siti di informazione ne parlarono. 

Qualcuno lo accusò di usare cinicamente la sua prigionia per farsi pubblicità. In realtà pochi capirono la situazione paradossale nella quale si trovava. Nel momento in cui toccava l’apice della sua notorietà, Weiwei non era potuto venire a Venezia, costretto a vivere in patria sotto sorveglianza e senza passaporto. Dal suo isolamento non poteva capacitarsi della notorietà che aveva ottenuto la mostra, perché viveva in uno stato permanente di pressione psicologica e di timore per la sua sorte. Tuttavia, fu contento che la sua denuncia avesse raggiunto lo scopo: affermare il valore della libertà di espressione attraverso l’arte.

Subito dopo l’inaugurazione mi scrisse: «Credo che l’arte dovrebbe essere messa in pubblico per generare discussione e noi l’abbiamo fatto».  E la sua opera ha continuato a generare discussione, con mostre e interventi artistici in ogni parte del mondo. Per come lo conosco, il suo atteggiamento di ribellione si mescola a un atteggiamento di modestia e di apparente pacatezza della persona che ne definiscono la complessa personalità.

Memento mori 

La sua partecipazione alla Triennale delle Hawaii, curata tra gli altri da Melissa Chiu, direttore dell’Hirshhorn Museum di Washington, e due recenti interventi in Italia, alle Terme di Diocleziano e al Teatro dell’opera di Roma, che rimandano idealmente alla mostra di Palazzo Strozzi Ai Weiwei libero del 2016, con l’installazione di nove gommoni sulla facciata dell’edificio, mantengono alto il livello di attenzione per il suo lavoro.

L’installazione La Commedia Umana alle Terme di Diocleziano è un’opera composta da oltre 2mila pezzi di vetro soffiato a mano e fuso dai maestri vetrai di Berengo Studio di Murano. Si tratta di un enorme lampadario di oltre sei metri di larghezza e nove di altezza, che pesa quattro tonnellate e pende dal soffitto di una delle sale delle Terme. Il progetto sembra una metafora della pandemia e fa riflettere sul destino dell’umanità. I pezzi che lo compongono hanno la forma delle ossa umane e rispecchiano perfettamente un memento mori secondo una possibile lettura occidentale.

Tuttavia, dal punto di vista dell’artista si tratta di una forma di realismo privo di velature metaforiche. La morte è presentata in modo semplice e diretto per quello che è: l’opera mostra il destino umano, che la pandemia ci ha ricordato in modo acuto. 

Il vetro soffiato, materiale prezioso del passato europeo, riprende l’attenzione di Ai Weiwei per i materiali tradizionali, come quando espose alla Tate Modern Sunflower Seeds ricoprendo il pavimento della Turbine Hall con cento milioni di semi di girasole di ceramica, fabbricati e dipinti a mano da maestranze cinesi. L’apparente richiamo alla tradizione dell’arte europea viene superato da un concreto richiamo all’attualità e quest’opera ha la forza e la lucidità di un monito diretto a tutti noi.

La Turandot 

L’altro intervento italiano di questi giorni è la sua regia della Turandot di Giacomo Puccini al Teatro dell’Opera di Roma. Anche qui l’artista, partendo da un’opera storica si ricollega alla realtà contemporanea. La realtà è ciò che imprime all’artista una grande spinta e uno stimolo alla sua produzione artistica.

Questo interesse ha influenzato anche la sua scenografia. La base è costituita da una rappresentazione geografica del mondo, tracciata sul pavimento del palco, mentre sullo sfondo, con quinte costituite da rovine, vengono proiettati video di una città cinese contemporanea, con vedute dall’alto di intrecci di autostrade e un parcheggio. Seguono immagini di uomini vestiti con tute anti-virus, che ci ricordano la pandemia, e altre immagini di città dall’alto. Poi in successione una manifestazione con ombrelli e candele, che rimanda alle proteste di Hong Kong.  Ancora immagini di scontri nella città ex-colonia inglese, con dimostranti e poliziotti che brandiscono scudi. Compare anche la figura di una persona che sale una scala mobile con una maschera antigas e un berretto con la scritta “Hong Kong City”. Figure sfocate di persone che corrono e cadono a terra.

Il flusso della realtà contemporanea come un flusso di coscienza, rappresentato da questa sequenza di video, incrocia e si sovrappone alle vicende della Turandot. Nella parte finale, il realismo dei video si stempera nella scenografia composta da disegni di soldati con kalashnikov e di droni. In chiusura, la proiezione è composta da un gioco di ombre cinesi di donne, vecchi e bambini che si muovono nello sfondo. La realtà sembra diventare epica ma senza alcun eroismo. 

Questo è uno dei punti centrali della sua poetica. Una volta mi parlò di una donna cinese che viveva per strada, non aveva che poche cose che portava con sé. La polizia l’arrestò e disperse queste sue cose, lui cercò di recuperarle perché mi disse che voleva farci un’opera. Quello che Ai Weiwei ha inseguito in tutta la sua opera è la dignità dell’individuo, sia esso un artista o un cittadino qualunque, in un’epoca che tende a schiacciare l’individualità e la libertà in nome di interessi superiori, economici, politici, militari.

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