Giulio Einaudi e Roberto Calasso i capi tribù. Natalia Ginzburg ed Elsa Morante le signore di ferro. Bruno Munari e Gianni Rodari i maghi. Italo Calvino e Primo Levi i prediletti. Goffredo Parise e Leonardo Sciascia gli inquieti. Gianni Celati il jogger che correva da una parte all’altra del globo. Daniele Del Giudice un Conrad volante. Pier Paolo Pasolini e Umberto Eco i mattatori. Nelle memorie di Ernesto Ferrero – nelle sue parole, nella sua voce – la storia dell’editoria italiana di questi ultimi sessant’anni è un palcoscenico affollato di protagonisti, a tratti una giungla di animali esotici, una cucina indaffarata, un santuario di idoli, quasi sempre un miracolo di felicità.

Ma non è nostalgia: «Io con questa gente ci parlo tutti i giorni, continuano a esistere, sono presenze vive che hanno ancora da raccontare a da dire». Cosa? «L’importanza della parola. La singola parola. Per me i sinonimi non esistono. Ovvero: esistono per comodità. Esistono degli apparentamenti di area semantica, poi però ogni parola ha un suo colore, una sua unicità, come gli esseri umani».

E di esseri umani, francamente speciali, unici, è costellata la galleria illuminata da Ferrero nelle pagine di Album di famiglia. Maestri del Novecento ritratti dal vivo, pubblicato da Einaudi. Torinese, classe 1938, critico e scrittore (premio Strega nel 2000 con N., romanzo su Napoleone), Ferrero è stato anche, nell’ombra, uomo macchina di case editrici e fautore di successi.

Lo scontro dialettico

Tragitto lungo: Einaudi a inizio anni Sessanta fino al 1978 per poi passare da Garzanti, Mondadori, Bollati Boringhieri, ancora Einaudi durante la famosa crisi degli anni Ottanta, fino alla direzione del Salone internazionale del libro di Torino, che ha guidato dal 1998 al 2016.

Gusto neanche tanto celato per l’ironia e il ritratto vivido, Fererro rievoca la mitologia Einaudi: «Era la felicità del fare insieme. Non c’erano ruoli definiti. Nessuno si imponeva perché aveva un grado gerarchico superiore. Entusiasmo e allegria progettuali, corroborate dalla consapevolezza di essere nel movimento giusto della Storia, magari con un po’ di presunzione. Negli anni Sessanta e primi Settanta soffrivamo di un certo complesso di superiorità. Einaudi era l’editore egemone, tutti sognavano di pubblicare lì».

Ma lui com’era, complicato e imprendibile come si favoleggia? Dice Ferrero: «Einaudi aveva letto pochissimi libri, non ne aveva il tempo. L’unicità di Giulio Einaudi, rispetto ad altri capi, era uno che non amava circondarsi di yes man, ma di gente che la sapeva molto più lunga di lui. Voleva lo scontro dialettico, diffidava dell’unanimità, che anzi lo metteva in allarme, subodorava un qualche inciucio. Aveva introiettato l’insegnamento di suo padre, Luigi Einaudi: il sale della democrazia è lo scontro duro e leale. Lo scontro lo divertiva. Aveva un fondo di bambino dispettoso, gli usciva un sorriso divertito».

Editoria come servizio civile

Ferrero ricorda che con alcuni autori si finiva per diventare amici. Il primo che gli viene in mente è Primo Levi: «Io sono entrato in casa editrice il primo febbraio del 1963, dopo venti giorni arriva Calvino in ufficio piangendo perché era stato a trovare il suo amico Beppe Fenoglio alle Molinette dove sarebbe morto a 41 anni, e ai primi di marzo mi sono trovato sul tavolo le bozze de La Tregua. Non conoscevo Levi e non avevo letto Se questo è un uomo, che era stato ripubblicato nel 1958 da Einaudi però in una collana di saggistica, un grave travisamento. Ero molto intrigato dal fascismo».

Cioè? «Sentivo come se la facilità con cui gli italiani avevano acconsentito a questa farsa grottesca fosse colpa mia. Avevo anche scritto un romanzo che raccontava la storia vera di un ragazzo che non voleva andare agli esercizi preliminari del sabato. E pur essendo appena arrivato ho subito capito che Levi era un grande scrittore. Diventammo amici. Lo accompagnai a Venezia a vincere il Campiello. Era un uomo di una mitezza, di una gentilezza, di una umiltà eccessive, autolesionistiche; gli furono anche fatti dei torti e mai che si sollevasse un sopracciglio! A parte che poi abbiamo scoperto tutto l’infinito di cose che sapeva: sapeva tutto e lo nascondeva. Non voleva ferire l’ignoranza degli altri. Disponeva di un lessico sterminato. Era un etologo, un linguista, antropologo, traduttore, un poliedro con una quantità di facce ancora oggi da scoprire».

Compagna di banco, si può quasi dire, era Natalia Ginzburg. «Era facile volerle bene», ricorda Ferrero. «Aveva tutta l’aria di una zia severa, coraggiosa, triste, con tutto quello che aveva vissuto e la figlia con una grave disabilità avuta da Gabriele Baldini, che accudiva meravigliosamente, il che le procurava una grande angoscia. Donna plutarchiana, ma con il sorriso».

E Calvino, al cui ruolo di ufficio stampa Ferrero era subentrato? «Con lui il rapporto è stato più difficile. Paradossalmente mi è infinitamente più vicino adesso che parlo con lui tutti i giorni, perché il suo metodo di leggere la realtà, basato essenzialmente su un codice binario, lo trovo di una intatta modernità. Di persona era uno di poche parole, che si faceva i fatti suoi, lavorava molto, non è che desse grande confidenza, non era compagnone, e all’occorrenza bacchettava duramente, e gliene sono grato perché così si impara. Aveva una capacità di lavoro pazzesca. Ha scritto almeno cinquemila lettere di risposta ai “manoscrittari”. La pazienza infinita con cui spiegava perché il libro non andava! Parsimonioso, se non avaro, da buon ligure, invece con questi ignoti che stavano nella più remota provincia italiana era di una disponibilità… Credo sia un tratto che gli veniva dei genitori, socialisti umanitari molto disponibili, portati ad avere cura degli altri. Lui vedeva l’editoria come un servizio pubblico, civile, cui dovevano concorrere tutti».

Artigiani malati di perfezionismo

Ferrero ha lavorato con altri grandi. Livio Garzanti: «Mi divertiva. Ci ho lavorato un anno e mezzo. Averci a che fare tutti i giorni non era facile, ma era talmente straordinario che non potevi non sorridere. Faceva una vita ritiratissima, non vedeva nessuno, aveva una villa sul lago di Como dalle parti di Colico, andava a Cherasco da sua moglie Gina Lagorio, che gli aveva fatto conoscere questo vino dal minaccioso nome di Pelaverga, e i Baci di Cherasco, un dolcetto, uniche frivolezze. Per il resto era concentrato sulla casa editrice ma con l’aria irritata di chi ha a che fare con una masnada di filibustieri che lo stanno fregando. Non era vero, aveva collaboratori straordinari».

Tra gli amici ricorda Roberto Calasso, patron di Adelphi scomparso l’anno scorso: «Lì invece la casa editrice era lui. Un sapere che sembrava non avere limiti, che poteva passare dalla cultura vedica a Tiepolo e oltre. Anche lui era un artigiano malato di perfezionismo e attentissimo al minimo dettaglio. Occhio infallibile. Alla mattina scriveva e al pomeriggio andava in casa editrice».

Ferrero racconta anche colui che, prima di Calasso (il quale nei primi anni Sessanta era un neolaureato), fondò Adelphi venendo da Torino, cioè Luciano Foà, dopo essere stato una colonna da Einaudi: «Luciano era un uomo adorabile. Anche lui un sapiente che nascondeva la propria grande sapienza, e poi era molto fattivo. Negli anni Cinquanta in cui ha retto la segreteria generale di Einaudi è stato un grande.

Si devono a lui la pubblicazione del Diario di Anna Frank, e la ripubblicazione di Se questo è un uomo, insieme a Paolo Boringhieri. Il suo divertimento era rivedere le traduzioni dal tedesco, ma sapeva far funzionare la macchina».

C’è un tratto comune che unisce questi personaggi? «Nella vita quotidiana erano quasi tutti uomini di grande semplicità e modestia, il divismo era inqualificabile, non esisteva. La vita della casa editrice si prolungava ben oltre l’orario di ufficio. Gli einaudiani andavano a fare il picnic sul lago di Viverone. Una vita comunitaria. Il colore dell’epoca era quello di una grande amicizia. Un sentimento familiare. Lo si vede a Palermo negli uffici della Sellerio, anche adesso che Elvira non c’è più, sembra di entrare in una casa borghese, le stampe alle pareti, i mobili di ottimo gusto. Una casa editrice funziona con il gruppo fortemente affiatato. Dove tutti non solo si rispettano, ma si amano. È fondamentale».

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