Sull’isola di Faro, meta di feticisti cinefili in pellegrinaggio tra i memorabilia bergmaniani, è ancora in mostra il lettone che ospitava Liv Ullman ed Erland Josephson nel finale di Scene da un matrimonio.

Per rinfrescare la memoria sulle location di ben cinque titoli di culto e sulla tempestosa vita sentimentale del regista svedese (nove figli da cinque compagne diverse) c’è un film notevole di Mia Hansen-Love, Bergman Island, che era in concorso all’ultimo Festival di Cannes. Curiosamente, è stato snobbato dal grosso dei critici. Forse perché Ingmar Bergman risulta démodé. Per le nuove generazioni che si affacciano al cinema non è più un articolo di fede. La strenua militanza citazionista di vecchietti come Woody Allen cade nel vuoto.

La sacralità della famiglia

Anche per questo Scene da un matrimonio, miniserie di Hagai Levi targata Hbo che rilegge l’omonima serie firmata Bergman a quasi mezzo secolo dalla messa in onda sulla tv svedese e anche sulla Rai italiana, è insieme un risarcimento e uno scossone da pelle d’oca.

Le commissioni di censura, per definizione, non si sono mai particolarmente distinte per perspicacia e lucidità. Se i censori di quella nostra Italia cattolica del 1973, nel mezzo del cammin tra le leggi rivoluzionarie sul divorzio e sull’aborto, avessero avvertito la carica sovversiva di quelle verità denudate di coppia, mai e poi mai Bergman sarebbe approdato al piccolo schermo di casa. Bergman, semplicemente, disintegrava la sacralità della famiglia con la f maiuscola, come pilastro sociale e come istituzione. Si meditava già il rogo per Ultimo tango a Parigi, ma all’ottusità dei tutori della pubblica morale sfuggiva l’impatto più sostanzioso che non le immagini, le parole – liberate dai pudori convenzionali – sono in grado di generare.

Da statistiche, la percentuale di divorzi in Svezia raddoppiò tra il 1973 e l’anno successivo. Banalmente, si accusò la “spudorata” dissezione familiare trasmessa in tv di aver fatto da volano alle separazioni. Ma era la stessa Svezia di Strindberg, che aveva scritto: «Mi chiedo spesso se c’è niente di peggio di un marito e di una moglie che si detestano».

Largamente basata sulle proprie esperienze dirette e sul naufragio dell’ultima relazione con Liv Ullman, la sceneggiatura di Bergman registra, più che stimolare, i fermenti di emancipazione femminile già in atto. La deriva di tradimento subìto, abbandono e sofferenza era – quasi – prerogativa delle donne-mogli-madri.

Fu il pubblico femminile a decretare l’enorme successo della serie in patria. E il percorso di Marianne-Ullman lungo i sei episodi è un percorso di conquista, di coscienza. Dalle macerie di coppia è lei, alla fine, a uscire più solida. Le tappe sono più chiare nei 281 minuti originali del montaggio televisivo che nei 167 minuti di sintesi per il grande schermo successivamente ricavati dal regista.

Il remake

Radicalmente fedele nella struttura (ridotta però da sei a cinque capitoli) e radicalmente infedele nel linguaggio, il remake di Scene da un matrimonio trasmesso su Sky Atlantic e in streaming su Now inchioda alla poltrona di casa, ancora una volta, soprattutto le donne. Hagai Levi – forte di un pedigree che comprende i trionfi seriali di In Treatment e di The Affair – ha ottenuto dalla Ingmar Bergman Foundation i diritti sulla sceneggiatura finora negati a postulanti eccellenti. Daniel Bergman compare in prima persona tra i produttori esecutivi. Eppure Levi ha commesso, in apparenza, un delitto di lesa maestà: ha invertito i ruoli.

È Jessica Chastain-Mira ad abbandonare il marito Oscar Isaac-Jonathan, non viceversa. Si certifica un’emancipazione economica comunque in marcia: lei manager di una multinazionale di tecnologie d’avanguardia, lui professore universitario di filosofia, con più tempo per badare alla figlia. Con chi solidarizzi – solidarizziamo –  da casa? Con lui, a corpo morto. Perché non è una questione di sesso. È una questione di potere. Il problema è politico, si diceva una volta. Il possesso dell’altro è un’illusione. La libertà è un’illusione. Ma a decidere, a scegliere, è chi può permettersi di scegliere. Sono i modelli di mercato a dettare legge, fin dentro l’intimità della felice famiglia borghese da manuale.

Le dinamiche di sopraffazione mascherate di urbanità, il non rispetto della dignità altrui, sono figli dei modelli economici dominanti. C’è una moglie sempre in tiro per consuetudine professionale e un marito vestito a caso come tutte le casalinghe allo sbando. Promossa ai vertici della filiale di Londra, lei vive con il nuovo compagno ma propone al consorte di seguirla con la figlia, lasciando New York, perché per lui «tanto è lo stesso». Chi ha pochi soldi deve adattarsi a chi ne ha di più. C’è una regola ferrea che governa la separazione contenuta in potenza in ogni unione umana.

Nel nostro tempo

Riparametrata sull’èra dei cellulari e delle startup, perché riesce a sconvolgere ancora, nel nostro 2021, questa privatissima radiografia di un capolinea? Perché non è e non vuol essere, esattamente come per Bergman, una storia singola. È meravigliosamente indecente perché si propone come universale. L’espediente narrativo usato da Hagai Levi è illuminante. Ogni episodio inizia prima del ciak vero e proprio, nel backstage regolato dai protocolli Covid, con i due interpreti che attraversano il set, scambiano battute con truccatori e tecnici, arrivano in camerino, si concentrano. Sono attori “in prestito” a una storia. Nessun alibi: questa non è la storia dei personaggi Mira e Jonathan, è nostra storia comune. Non diceva Bergman che il matrimonio come tale è l’agonia dell’amore?

La gamma delle ferite inferte e subite non è cambiata, dagli anni Settanta, perché è immutabile: paura, rabbia, tormento e dipendenza, gelosia e sensi di colpa, gli abbracci che diventano corpo-a-corpo furiosi e quell’erotismo straziante della disperazione quando il sesso è insieme bisogno e minaccia, una volta che hai imparato a gestire la tua “esistenza senza” col pilota automatico. La formula di questo “dark side of the marriage” è folgorante nella sua semplicità: solo un diluvio inarrestabile di parole nella prigione di quattro mura domestiche può dirti che le parole non servono a comunicare, si utilizzano scientificamente per fini opposti.

Normalità struggente

Chiaro che il (bel) ricatto emotivo di un’esercitazione in corpore vili di questa fatta richiede una recitazione “estrema”, senza la scorciatoia rituale di lacrime e dissolvenze. Bergman, mettendo in scena Liv Ullman (e Bibi Andersson, altra sua ex, in un ruolo di contorno) sfruttava quella linea d’ombra in cui finzione e realtà vanno in cortocircuito. Chastain e Isaac, legati solo dalla formazione comune alla Juilliard School di Manhattan, hanno la sorprendente forza di oscurare, a tratti, gli interpreti originali. Dio benedica la normalità struggente di Isaac, che non inquina tutto con l’insopportabile fisico da palestrato di tanti inutili colleghi suoi. Il direttore della fotografia di Levi, Andrij Parech, ha avuto più libertà di Sven Nykvist, che alle prese con la riduzione cinematografica di Scene da un matrimonio rimpianse senza riserve il vincolo dei piani stretti. C’è più cinema, nel remake.

Eppure. Eppure ci sono lampi di ferocia nel capostipite che non arrivano dritti alle viscere ma sedimentano nella memoria, regioni oscure che questa pur magnifica rilettura non ha osato sfiorare. Come la confessione shock di un’attempata divorzianda a Liv Ullman, che di mestiere, per ironia di sceneggiatura, fa la consulente matrimoniale: «Non ho mai amato i miei figli, ma credo di essere stata una buona madre. Penso che mio marito ed io ci stiamo uccidendo». È il personale, definitivo requiem di Ingmar Bergman sull’istituzione. Per interposta persona.

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