Benvenuti nell'inquietante mondo del cibo ideologico, dove ingredienti millenari e piatti deliziosi vengono piegati biecamente alle ragioni della propaganda politica.

E dove il Vietnam gioca un ruolo di primo piano, come vedremo.

La propaganda ha sempre usato il cibo, scandalizzarsi sarebbe quindi da ipocriti, e bisogna anche dire che la strategia spesso ha perfettamente funzionato, purtroppo. L’efficacia dei messaggi propagandistici basati sul cibo è dovuta a quella che la sociologa Deborah Lupton chiama «incorporazione».

La studiosa sostiene che diamo molta importanza ai discorsi sul cibo perché quello che mangiamo è qualcosa che introiettiamo, che diventa parte del nostro corpo, e quindi parte di noi; ne risulta che se un’idea, un credo o un’opinione viene veicolata attraverso il cibo, l'autore del messaggio colpirà il suo pubblico a un livello più profondo e con risultati più persuasivi rispetto ad altri tipi di messaggi.

Possiamo dire quindi che attraverso il cibo si fa della efficacissima propaganda, e si fabbricano discriminazione, censura, inganno e molto altro. Solo per restare agli ultimi cento anni, il nazismo esaltò il vegetarianismo e la sua presunta purezza solo per condannare la «sporca» tecnica di macellazione ebraica; il fascismo, aiutato dai futuristi, condannò la pasta (il cui grano bisognava importare a caro prezzo), come alimento pesante e che spinge alla pigrizia e al pessimismo, solo per vendere più riso, che invece si produceva in abbondanza in Italia.

Le democrazie non sono state da meno: in India le attuali spedizioni punitive (si è arrivati anche all'omicidio) contro i musulmani che mangiano carne di mucca dimostrano come anche oggi il cibo venga utilizzato per propaga religiosa e politica.

In Europa, certamente su scala meno estremista, abbiamo spesso ascoltato la favoletta del «cibo di una volta» raccontata da tanti politici per beatificare il cibo tradizionale e demonizzare quello innovativo, che arriva magari da altri paesi.

Il tutto al fine di rinforzare l'identità nazionale degli elettori e costruire il nuovo come nemico da tenere lontano per salvare la «sacra» tradizione.

Purezza sopravvalutata

In un panorama propagandistico in cui è quasi sempre il cibo tradizionale a essere difeso e a essere considerato «puro, il Vietnam ci sorprende. Perché in questo paese sta accadendo il contrario.

Una ricerca, sviluppata tra gli altri dall'esperto di politiche del cibo Christophe Béné, dimostra che il governo vietnamita ha attuato una grande campagna propagandistica per esaltare il cibo nuovo e demonizzare quello tradizionale.

L'insolita neofilia gastronomica da parte di un governo invita ad approfondire la questione. Sappiamo che ogni propaganda ha motivazioni ufficiali, spesso false («la pasta fa diventare pessimisti») e ragioni nascoste, sempre vere e concrete («non possiamo più importare grano e dobbiamo quindi consumare meno pasta e più riso»).

Nel caso del Vietnam, la motivazione ufficiale dichiarata dal governo vietnamita è la sicurezza alimentare, un principio nobilissimo e perseguito da molti stati.

In suo nome, il Vietnam negli ultimi anni ha avviato diverse campagne di comunicazione e iniziative concrete, allo scopo di migliorare la qualità del cibo, diminuire i casi di avvelenamento, impedire il diffondersi di epidemie e altro ancora.

Quello che notano gli autori della ricerca, però, è che queste campagne sono state diffuse sui media come non era mai successo precedentemente.

La sicurezza alimentare è diventata il centro indiscusso di tutti i discorsi del governo sul cibo, un tema onnipresente ogni volta che in Vietnam si è voluto parlare di alimentazione.

Non solo: gli autori citano anche altre ricerche in cui si dimostra che nel paese la sicurezza alimentare non è a rischio più che negli altri paesi vicini, tutt'altro.

Il Vietnam in questo campo ha infatti dei parametri che sono tra i più alti dell'intero continente asiatico. In sostanza, l'intero sistema del cibo vietnamita è già sufficientemente al riparo da epidemie alimentari, malattie legate al cibo e rischi di avvelenamento (si parla qui ovviamente di grandi numeri e non di casi isolati, riscontrabili ovunque).

Niente quindi giustifica la «narrativa» (così la chiamano gli autori) del governo sulla sicurezza alimentare, di per sé un tema importante ma evidentemente strumentalizzato per altre ragioni.

Porre fine alle tradizioni

Andando a vedere nel dettaglio queste campagne, infatti, ci si accorge che molte di esse hanno come scopo finale quello di far chiudere i mercati all'aperto, tradizione millenaria del paese, e di sostituirli con nuovi supermercati, in molti casi negozi di catene globali possedute da fondi e imprenditori internazionali, in alcuni casi statunitensi, o da multinazionali.

È stato calcolato che dal 2014 al 2019 i supermercati erano cresciuti in Vietnam del 5 per cento ogni anno, ma che i mercati tradizionali valevano ancora, nel 2019, circa il 90 per cento dell'intero settore. Le proiezioni future segnalano però un cambio di passo.

Gli esperti dicono che mentre nel 2023 il giro d'affari dei supermercati nello Stato del sud est asiatico si aggirava sui 246 miliardi di dollari, nel 2028 sarà di 435 miliardi, una crescita molto più veloce di quella degli anni precedenti, che supererà presto il 10 per cento annuo.

Se andiamo a vedere i numeri dei negozi fisici, otteniamo delle indicazioni ancora più chiare. I supermercati erano circa 1200 nel 2014 e 4.800 nel 2019.

È molto interessante poi osservare il mercato dei minimarket, in cui il leader indiscusso, come attestato da Nielsen, è Circle K, una catena statunitense arrivata in Vietnam nel 2008 e cresciuta rapidamente negli ultimi anni, fino a detenere oggi il 48 per cento dell'intero settore, grazie soprattutto ai suoi store aperti 24 ore su 24: un'offerta ben diversa, quindi, rispetto a quella dei mercati tradizionali.

Alcuni economisti hanno subito lanciato l'allarme, in quanto l'ulteriore diffusione di questo tipo di negozi porterebbe a un aumento dei prezzi medi del cibo (fenomeno comunque già in corso) e di conseguenza all'esclusione dall'accesso al cibo di una grossa fetta di popolazione.

Inoltre, l'ulteriore diffusione di queste catene di supermercati sconvolgerebbero gli equilibri dell'economia e della finanza vietnamita, determinando il successo di produttori stranieri e una grave crisi delle aziende locali.

Alcune inchieste di testate internazionali hanno recentemente fatto luce sul perché si vogliano aprire queste catene di supermercati a scapito dei mercati tradizionali, penalizzando l'economia interna.

In sostanza, il Vietnam è in cerca di un rapporto più paritario tra importazioni ed esportazioni con gli Stati Uniti, per riequilibrare il divario commerciale tra i due paesi.

Si tratta di una politica attuata già prima del problema dei dazi, e diventata adesso ancora più urgente.

È quindi chiaro che l'attenzione del governo per le catene di supermercati è solo una parte di un progetto più ampio con cui il Vietnam spera di aumentare le importazioni dagli Stati Uniti, tagliare i propri dazi e aprire a investitori americani, come ha recentemente spiegato l'agenzia Reuters. In questa strategia economica più ampia c'è anche una «diplomazia del golf».

La Trump Organization e il suo partner vietnamita (l'immobiliare Kinhbac City) stanno investendo miliardi di dollari in campi da golf, hotel e progetti immobiliari proprio in Vietnam.

Secondo le ultime notizie, come sottolineato sempre dalla Reuters, tutto questo entrerebbe a far parte delle complesse trattative sui dazi in atto da qualche settimana.

Insomma, siamo partiti dalla propaganda che adotta il cibo come una clava e siamo arrivati ai dazi, il problema dei nostri giorni. È la conferma, se ce ne fosse bisogno, che quello che mangiamo è un'arma potentissima e pericolosa quando va in mano a politici senza scrupoli e relativi responsabili della comunicazione.

Quello che colpisce anche nel caso del Vietnam è che il cibo può essere usato dalla propaganda in qualsiasi senso, perché per i comunicatori è una materia da una parte a cui il pubblico è molto sensibile, dall'altra da poter adattare arbitrariamente a diversi scopi: una volta il cibo ideologico può esaltare la tradizione e il passato, un'altra può supportare l'innovazione e il futuro, e ancora può significare mille cose, a seconda di dove vanno gli interessi politici e commerciali di uno specifico Paese. Insomma, come direbbe Deborah Lupton, l'incorporazione ha colpito ancora.

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