Il teatro è vivo: le opere che ne hanno lo spazio evolvono nel tempo. Soprattutto, il teatro si fa. Il drammaturgo e attore Marco Paolini, che giovedì 25 gennaio riceverà una laurea honoris causa dall’università di Pisa in Filosofia e forme del sapere, trova la sua filosofia proprio nell’azione. Ragionando su una generazione che ormai non si identifica più nel senso comune di oggi, e su quella successiva che non può permettersi di aspettare che il vecchio scompaia, dice: «Forse è meglio prima identificare una strada collettiva e poi interrogarsi su come ci si è arrivati». Del resto è la base del teatro: actor è colui che agisce.

Il riconoscimento dell’ateneo toscano arriva per il suo «teatro civile e di denuncia basato sul coraggio della presa di posizione e sull’importanza di tenere vivo il pensiero critico», a partire soprattutto da Il racconto del Vajont, vincitore del premio Ubu per il teatro politico. Un testo messo in scena per la prima volta nel 1995, poi ripreso in televisione il 9 ottobre del 1997 e che, nel 2023, in occasione del sessantesimo anniversario della tragedia, ha trovato una nuova forma. Non più monologo, ma coro.

Nel suo mestiere, Paolini si è chiesto a più riprese quale fosse la funzione della drammaturgia: nel raccontare il reale, la vera ricerca è quella di «un antidoto contro la solitudine».

Come si sente a ricevere questa laurea honoris causa?
Quando arriva un riconoscimento come questo ti domandi in che maniera il segno che hai impresso è uscito. Sono abituato a lavorare sulle parole dette, che hanno poca cittadinanza. Contano meno di quelle che si scrivono, il teatro non lascia messaggi scolpiti. Credo nel lavoro che faccio, gli devo moltissimo e cerco di restituire qualcosa che non sia nella logica del prodotto, della produzione, ma che si interroghi sulla funzione del teatro. Non so se è filosofia questa. Spero però non si tratti di un riconoscimento alla carriera!

Il suo intervento è dedicato alla “Pratica e alla grammatica del suo mestiere”. Qual è il lessico del teatro?
Il lessico deve tantissimo alla lezione di Luigi Meneghello, Libera nos a malo. C’è chi ha altri riferimenti sul Novecento, ma questo romanzo è una molla per riconsiderare il territorio, la comunità, e soprattutto la lingua, come una materia viva e non come una cosa fossile. Quelle che Meneghello chiama “parole-cose” funzionano come un ponte, non come un muro. Se usate bene colpiscono i sentimenti, e i sentimenti sono algoritmi per trovare risposte. Il lessico del teatro consiste nella ricerca di parole che ti fanno uscire dalla logica della comunicazione, e fanno rientrare nella logica di colpire il cuore.

Sta anche portando in tour Boomers, «un salto nei ricordi, nei frammenti di memorie condivise di un piccolo mondo neanche troppo antico, ma tramontato»: oggi è impossibile il dialogo tra le generazioni?
Sarebbe più facile rispondere alla domanda su come si stabilisce un dialogo tra dinosauri e mammiferi. Un dinosauro sarebbe in difficoltà a parlare con chi dice che i dinosauri non sono più padroni del mondo.

Esiste una comune percezione delle cose che per chi ha una certa età è vincolata a un’idea di normalità che non esiste più. Il senso comune si applica quindi a un contesto più frammentato. Quando quelli della mia generazione erano giovani, era come il nostro ballo delle debuttanti. Potevamo cambiare le cose, avevamo la forza numerica: eravamo i primi ad avere la maggioranza rispetto alle generazioni precedenti. Oggi c’è una difficoltà a utilizzare gli strumenti classici del potere, come la democrazia: le alternative sono distruttive, rivoluzionarie, nichiliste. Non c’è un giudizio in questo: ci ragiono con curiosità, non voglio arrivare a delle conclusioni.

Si ragiona anche del rapporto con la tecnologia.

Ci fornisce un sovrappiù di razionalità e pretesa oggettività. La funzione che noi attribuiamo ai dati è di darci risposte oggettive. Siamo abituati ad avere nella testa un aiutino, come nei quiz, quando il presentatore permetteva al concorrente di non fare affidamento alla memoria ma chiedere un supporto da fuori. Ma la parte decisionale non è, credo, solo razionale. Appartiene alla sfera del coraggio, dell’empatia, della sensibilità. Non conosco nessun supporto tecnologico in questo. Seppur vestiti con un’armatura, nella testa restiamo nudi. Manteniamo indifferenza nei confronti delle moltitudini, non capiamo i figli. Parlandone così però sembra che abbia davvero qualcosa da dire in filosofia: sul palco invece si trova il modo di raccontare con una bella canzone.

I sui testi nel frattempo si evolvono: dal 1995, com’è cambiato Il racconto del Vajont?
L’ho rifatto, insieme ai colleghi storici e ai più giovani con cui ho iniziato a collaborare. C’è dietro una squadra, che oggi si chiama La fabbrica del mondo (titolo anche della trasmissione con Telmo Pievani, ndr). Abbiamo trasformato in coro Il racconto del Vajont perché non si trattava più di celebrare la memoria, ma il presente. Anzi, lasciamo stare i tempi grammaticali: teniamo avanti e indietro. Il Vajont guarda avanti, con la profondità dell’indietro. Questa storia non aveva bisogno di restare ancorata alla voce e al tono della trasmissione della tv del 9 ottobre 1997 di Paolini. Quel testo è pubblico, è un bene comune: l’oralità è insofferente ai diritti.

E come è andata?
Dovevano partecipare 100 teatri: alla fine erano 250. E insieme anche le scuole hanno raccontato il Vajont: più di 5mila persone si sono cimentate a ripercorrere quella storia. Professionisti e non: alcuni in pubblico, altri in salotto, in cucina, in cantina. Gruppi di persone che hanno deciso che quella storia li riguardava. Non stavano celebrando un evento di 60 anni fa: stavano pensando a loro stessi. Le vittime di quella storia erano loro. Leggera serviva a riattivare meccanismi di guardia. Questa è una delle possibili funzioni del teatro: non ragionare in termini di opera, produzione, generi. Ogni volta che i generi prendono il sopravvento, il teatro soffre. È stato etichettato, è finito. Ma il mio lavoro non è finito, le opere non si mettono in cantina.

Dal Vajont la riflessione si allarga al rapporto con l’ambiente intero. Si può raccontare una cosa in cui siamo immersi, tipo la crisi climatica?
Crisi climatica è una parola riduttiva: noi stiamo occupando tutti gli spazi della natura, ma non in maniera amichevole. Insieme ai macrorischi legati al clima, ce ne sono altri legati alla devastante riduzione della biodiversità. Non vorrei che il riscaldamento globale fosse un alibi, per cui una volta trovata l’energia pulita il resto continua come prima. Se non facciamo ginnastica con i sentimenti, con l’empatia, non avremo un modello di equilibrio per le generazioni successive: non stiamo affrontando il tema della redistribuzione delle risorse, si obbedisce solo a logiche di mercato. Queste cose le dicono gli altri: il papa, Greta Thunberg, la comunità scientifica, che oggi esprime una rabbia che storicamente non ha mai espresso prima. Con la Fabbrica del mondo raccontiamo queste storie: Vajont non è un evento, è l’inizio di un percorso.

A quale pubblico oggi si rivolge questo racconto?
Pubblico non è un termine corretto: i ruoli vanno messi in discussione. Non si tratta solo di fare grandi eventi, come i concerti di beneficenza. È una delle possibili modalità, ma noi adesso abbiamo bisogno di cantieri. La messa a terra del lavoro culturale è rivolgersi contemporaneamente a professionisti e non professionisti e costruire dei cori. Delle persone che parlano una parola, a più voci. Le persone davanti a fatti di questa entità si sentono piccole e sole: l’azione culturale è togliere queste voci dalla solitudine.

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