Passa un tram – da un lato la scarpata erbosa del parco, dall’altro una fila di condomini altissimi. Il tram si ferma. Sali. A bordo, poche persone: è domenica, le otto di sera, inizia a far freddo. Cinque persone, anonime a una prima occhiata.

Fermi nella deflagrazione

Più vistoso degli altri un uomo alto, con una camicia damascata, da tanghero, un cattivo gusto d’altri tempi, ha in mano una scatola di cartone e fissa un punto in basso. Poco distante una ragazza longilinea, filiforme, capelli lunghi tra il castano e il biondo. Sulle orecchie delle cuffie enormi, da film di spionaggio. Ogni tanto guarda di sbieco il tanghero e si chiede cosa ci sia in quella scatola di cartone, da cui ogni tanto viene un debole ronzio, un suono come di una radio sintonizzata su uno spazio vuoto. Di lui so dirti poco: se gli chiedessi come si chiama ti darebbe solo l’iniziale, F. – e poi aggiungerebbe, come per scusarsi: «Sa, per la privacy».

La ragazza flessuosa si chiama Alma, ed è la prima volta che esce di casa dopo due mesi passati in casa a creare musica e a fare esperimenti di sonno cosciente. Senza solennità né furori di fuga, oggi ha voluto uscire a farsi un giro. Ha guardato fuori dal vetro della sua stanza-astronave: il cielo cupo, il piovasco, poca gente in giro – farà andata e ritorno dal capolinea, in piedi nella parte davanti, senza scendere mai.

Al capolinea aspetterà che il tram riparta in senso opposto, disegnando una specie di cerchio immaginario, un eterno ritorno della materia in cui lei rimane ferma: punto di partenza e punto d’arrivo possono coincidere se ci si impegna, le stelle continuano a bruciare idrogeno, la terra gira a trenta chilometri al secondo intorno al sole ma lei riesce a rimanere ferma. Serve grande concentrazione per rimanere fermi mentre tutto deflagra. Fra un’ora sarà di nuovo a casa. Sua madre tornerà a casa più tardi: non ne saprà mai niente.

Senza sfiorarsi

Quello che Alma invece non sa, è che anche sua madre è su questo tram. All’altro capo, qualche metro dietro le sue spalle. La madre si chiama Teresa: ha un cappotto leggero, un filo di rossetto, i capelli raccolti. È uscita per andare al cinema, da sola, come fa ogni domenica pomeriggio – «Prenditi un tempo per te», le dice il suo editorialista di riferimento – «impara a coccolarti».

Neanche lei vede sua figlia: sono vicine eppure insfiorabili, come due pianeti in gravitazione reciproca. Alma guarda fuori, Teresa un indeterminabile nord-ovest urbano. Anche tu conosci quel gioco di solitudini che si dipana in un mezzo pubblico o in un ascensore: il ricatto che ti costringe a violente e provvisorie convivenze, rapide strategie d’isolamento, attacco o difesa – lo sguardo nel vuoto, la musica nelle orecchie, lo scroll dello smartphone, il sorriso di cortesia, in fondo sono tutte variazioni di un’ordalia: attraversare uno spazio col minor danno possibile.

Teresa è uscita di casa immaginando di essere un’altra persona: non è un’insegnante, madre sola di una ragazza “problematica”, no, è la scrittrice di un romanzo straordinario e chiacchieratissimo, di quelli che coniugano la vetta della classifica di vendite con il giudizio dei critici, di quelli che entro un anno ci fanno un film o una serie. Perlomeno nel breve tragitto – quattro fermate, poi sei minuti a piedi – che la porta al cinema.

È abbastanza ovvio, in queste circostanze, non riconoscere le spalle della propria figlia: una figlia di cui si preoccupa perché ha quasi trent’anni e non studia e non lavora, una figlia di padre morto in un incidente aereo – l’unico evento eccezionale della sua esistenza – questa figlia lunga e flessuosa che esce dalla sua camera negli orari più strani, e lei talvolta pensa di odiarla, ma non è odio il suo, ma qualcosa di più sottile e forse più terribile: la fantasia ricorrente di non averla mai generata, il sogno di poter essere leggera, lei Teresa che si è sempre considerata leggera – «Io sono mozartiana» dice a volte di sé: «Mozartiana!» – e si è ritrovata questa figlia che a volte le pesa addosso come un macigno e le impedisce di spiccare il volo.

«Spiccare il volo»: è quello che ha detto al telefono all’impiegata del Ministero l’altro giorno, parlava del suo romanzo a cui sta dando «gli ultimi ritocchi», poi lo invierà a una grande casa editrice e «spiccherà il volo». Andrà così, andrà così senz’altro.

Le parole non dette

Di traverso, dritto come un fuso, c’è un altro uomo. Si chiama Primo. Ha un’ecchimosi sullo zigomo, dei lividi sulle braccia. Glieli ha fatti F., il tanghero, poco fa. Primo l’ha incontrato per strada, gli ha offerto dei soldi per farsi dare una spinta. «Una spinta forte», gli ha detto – «Una vera spinta?» ha chiesto F., per conferma; e poi gliel’ha data, la spinta, e Primo è caduto per terra, ed F. vedendolo crollare gli è piombato addosso e l’ha preso a calci, con violenza, gli ha detto «vaffanculo», e Primo si è rannicchiato in posizione fetale e ha aspettato che smettesse con la stessa pazienza con cui si aspetta che finisca di piovere.

Alla fine F. ha bofonchiato qualche parola di scuse, e Primo l’ha pagato comunque. Si sono poi ritrovati a prendere lo stesso tram, e ora sono qui, uno accanto all’altro, senza guardarsi, imbarazzati come due che hanno avuto un incontro sessuale insoddisfacente e non hanno voglia di ricordarselo. Primo tace. Come sempre. Non ricorda di aver mai detto una parola che non fosse necessaria.

Quanta solitudine si consuma all’interno dal linguaggio? Viene da chiedersi dove finiscono le parole non dette dai timidi, i soliloqui dei taciturni, i logorroici senza interlocutori, le grandi orazioni che gli introversi tengono con se stessi nel parlamento delle proprie fantasie.

Dove vanno, le parole non dette? Forse restano dentro, forse da lì vengono gli invecchiamenti precoci, le calvizie, i livelli alterati di cortisolo nel sangue. Forse sono queste le scorie della solitudine: le parole non dette, come rifiuti atomici che per quanto a fondo li ficchi nel terreno continuano a emettere radiazioni. Tra poco Primo sarà a casa. Si siederà accanto a Marta, aprirà il computer. Completerà il lavoro giornaliero: è un cleaner, ripulisce il web dai contenuti violenti, offensivi, inopportuni, otto secondi per decidere se accogliere o tralasciare la segnalazione – ignore o delete.

Punto di convergenza

 Seduta davanti al finestrino c’è una donna. Si chiama Simone. Ha una pianta appoggiata sulle gambe: un filodendro, monstera speciosa se qualcuno sapesse riconoscerla.

Ma Simone lo sa: i nomi stanno fluendo via dalle teste. A volte le sembra di essere l’unica a ricordare tutto, il nome e il posto giusto di tutte le cose, l’unica a coglierne lo splendore finale e segreto. Parte del suo lavoro è proprio questo: annotare i nomi, schedarli, riempire tabulati, produrre diciture, tracciare disegni – metti mai che fra tutti questi nomi prima o poi emerga una teoria che spieghi la solitudine e magari la cancelli.

Da quando lavora al Ministero della Solitudine ha prodotto quattro nuove categorie di soli: aspirazioni fallite (o dei desideri incompiuti); fissazioni ossessive (o della permanenza dell’immagine); passioni tristi (o delle affezioni negative); cupio dissolvi (o della stravaganza di certe inclinazioni pericolose).

È lei, Simone, il segreto punto di convergenza di queste persone. Ognuno di loro le telefonerà, o manderà una mail, firmerà una liberatoria. Oppure l’ha già fatto. Sulla sua scrivania ordinata, accanto al filodendro che porta sempre con sé a casa nel weekend per la paura (assurda) che le blatte in ufficio possano divorarlo, compariranno tutti e quattro, una scheda ciascuno, una costellazione di vite a cui nessuno ha dato ancora un nome. Il tram rallenta.

Sulla facciata dell’edificio lampeggiano i neon di un locale di karaoke dove, su uno schermo, passano le parole di una vecchia canzone. La città non è mai stata così grande. Fuori inizia a piovere.

Lo spettacolo Il Ministero della Solitudine di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni /lacasadargilla debutta al Teatro Fabbri di Vignola l’8 e il 9 ottobre nell’ambito di VIE, il festival di teatro internazionale di Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, in programma nelle città della rete dal 7 al 16 ottobre. La rassegna inaugura e chiude al Teatro Storchi di Modena, a partire dalla prima nazionale di Éléphant della coreografa e danzatrice marocchina Bouchra Ouizguen, per concludersi con lo spettacolo-evento Imagine del regista polacco Krystian Lupa. Nel mezzo, numerosi artisti italiani, fra gli altri Marco D’Agostin, Daniele Spanò e Anagoor; e due produzioni ERT in prima assoluta: Il Capitale di Kepler-452; Karnival di Michela Lucenti / Balletto Civile. Molti i nomi internazionali, dalla compagnia La Veronal diretta da Marcos Morau, alla regista greca Argyro Chioti, e all’artista libanese Rabih Mrouè.

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