Jeff Wall fa il suo debutto come artista nel 1978, realizzando The Destroyed Room, una fotografia monumentale a colori (159 per 234 centimetri) stampata in trasparenza e retroilluminata da un ligthbox.

È l’immagine di una camera da letto delle pareti rosse, il cui arredamento è stato devastato da una forza misteriosa.

Ciò che vediamo è un disordine minuziosamente ricostruito e il taglio che attraversa il materasso al centro della scena ha il sapore di una ferita fisica e psicologica. Le grandi dimensioni, il lightbox e la mise-en-scène diventeranno il marchio di fabbrica di Wall, almeno fino alla fine degli anni Novanta, quando “tornerà” alla stampa fotografica analogica prima e digitale poi.

Se è vero che il catalogo generale di Jeff Wall conta non più di duecento opere, le 55 arrivate in occasione della retrospettiva alla Fondazione Beyeler di Basilea sono uno di quei rari casi in cui la quantità corrisponde alla qualità. La selezione compiuta dal curatore Martin Schwander, visitabile fino al 21 aprile, è dunque altamente rappresentativa della parabola che ha permesso a Wall di diventare una delle figure più significative della fotografia d’arte a livello mondiale.

La scala della vita

Wall, che ha studiato Storia dell’arte a Londra, è cresciuto nel brodo di cultura dell’arte concettuale americana degli anni Sessanta e Settanta, ha negli occhi le opere della Scuola di New York, letto Clement Greenberg, digerito la Pop Art e studiato i grandi maestri della pittura europea.

Le sue scelte, sia formali sia di contenuto, sono un groviglio di continuità e discontinuità rispetto alle tendenze artistiche che si trova alle spalle e alla storia del medium fotografico.

Si è scritto spesso che il suo lavoro derivi direttamente dal modello della pittura ottocentesca.

Ma per Wall è una lettura parziale. Scrive in un articolo su Artforum del 2003 (pubblicato in Gestus. Scritti sull’arte e la fotografia, 2013, Quodlibet Abitare): «Della tradizione pittorica occidentale fino al XIX secolo ho estrapolato principalmente due cose: la prima è essenzialmente l’amore per le immagini, che credo sia al contempo amore per la natura e anche per l’esistenza; la seconda è l’idea di dimensione e di scala».

Per l’artista è centrale produrre immagini nelle quali gli oggetti e le figure siano rappresentati in modo da apparire delle stesse dimensioni delle persone che guardano l’immagine. «La scala della vita è un elemento centrale in qualsiasi giudizio su una scala appropriata».

Si tratta di un legame di continuità con la pittura della Scuola di New York, in cui l’enfasi sulle dimensioni monumentali, fino ad allora mai indagate dalla fotografia d’arte, era una via per l’espressione della fisicità dell’atto creativo. Anche la scelta del lightbox attribuisce alle immagini di Wall una presenza fisica tutta particolare.

Da una parte perché la scatola luminosa fuoriesce dalla parete di quasi trenta centimetri venendo incontro al visitatore, dall’altra perché l’immagine anziché riflettere la luce è essa stessa fonte luminosa. Si tratta di una tecnica che viene dal mondo della pubblicità, che avvicina Wall alla sensibilità della Pop Art, con la quale, tuttavia, l’artista non condivide l’interesse per la società dei consumi.

Come un regista

Wall concepisce ciascuna opera come un evento a sé stante. Non siamo mai di fronte a “cicli” o “sequenze”. In questo senso, la scelta di Schwander di presentare i lavori di Wall in sale tematiche offre la possibilità di vedere il percorso dell’artista in modo nuovo, scoprendo affinità e differenze tra le varie opere.

Nonostante la sua sia spesso catalogata nella categoria di staged photography, l’artista rifiuta questa definizione e propone invece il termine cinematography.

Wall sente il proprio processo creativo vicino a quello di un regista, che interagisce con gli interpreti (quasi mai attori professionisti) e che prepara il set in modo meticoloso.

Questo tipo di lavoro, che richiede tempo e mezzi imparagonabili rispetto a quello assai più snello dello “stile documentario” à la Walker Evans, è usato per rappresentare ciò che Wall chiama “gesti”. Sono pose o azioni su cui si possono proiettare significati condivisi.

In Mimic (1982) vediamo una scena di strada: un uomo cammina e appena dietro di lui un’altra persona, che tiene per mano una donna, guarda con fare minaccioso l’altro portandosi il dito medio alla tempia. In Milk (1984), il protagonista è seduto per terra e in mano ha un cartone da cui fuoriesce un spruzzo di latte. Il liquido ci appare come una macchia bianca astratta in mezzo alla fotografia.

In Boy falls from tree (2010), assistiamo alla caduta di un ragazzo, che viene immortalato a mezz’aria. Questi scatti danno l’impressione di aver colto quello si potrebbe assimilare al “momento decisivo”, caro al reportage umanistico.

In realtà Wall, con la sua cinematography, rimette in scena episodi a cui ha realmente assistito e che ricostruisce in modo che siano da una parte “a favore di camera”, dall’altra diano l’impressione di essere spontanei. Wall la chiama la parte “near documentary” – quasi documentaria – del suo lavoro.

Solitamente, la fotografia fa riemergere in noi la memoria. Qui avviene il contrario: è la memoria dell’artista che genera l’immagine.

Nel primo caso la testimonianza visiva di ciò che è accaduto realmente provoca in noi un’esperienza soggettiva, nel secondo è l’esperienza del ricordo personale che dà vita a un’immagine che ha la forza di diventare “gesto” che, in quanto tale, può essere compreso e condiviso.

Vari generi

Eppure non tutta la fotografia di Wall nasce in questo modo. Numerose sono le fotografie che, al contrario, nascono da un intento di documentazione, inteso in senso tradizionale. Paesaggi di Vancouver, scorci urbani, particolari di interni, situazioni di vita reale. Sono esempi della versatilità della poetica dell’artista, che intenzionalmente non ha mai voluto dar vita a uno stile proprio, che lo avrebbe reso universalmente riconoscibile.

A volte, ancora, Wall mette in scena situazioni di pura fantasia. È il caso di The Flooded Grave (1998-2000), in cui vediamo in primo piano una fossa scavata in un cimitero. Sullo sfondo le altre tombe, gli alberi, alcuni uccelli in cielo. La buca è allagata e a fianco c’è il cumulo di terra rimossa.

È solo ponendo attenzione che ci accorgiamo che l’acqua è abitata da forme di vita marine che, in modo molto discreto, alterano la percezione del significato di tutta l’immagine. La fotografia è stata realizzata sovrapponendo due scatti: uno realizzato nel cimitero e l’altro, quello della pozza d’acqua, nello studio dell’artista.

Le immagini più celebri

È a quest’ultimo genere di immagini che appartengono le due opere più celebri di Wall: A Sudden Gust of Wind (after Hokusai) del 1993 e After ‘Invisible Man’ by Ralph Ellison, the Prologue del 1999-2000. Nella prima, vediamo un paesaggio piatto e aperto in cui quattro figure in primo piano sono congelate mentre reagiscono a un’improvvisa folata di vento.

A suggerire lo spostamento d’aria, oltre alla posizione di due alberi sottili leggermente inclinati, sono i molti fogli di carta che volano via da una cartella in mano al personaggio sulla sinistra. Come afferma il titolo, si tratta di un d’après dal pittore e stampatore giapponese Katsushika Hokusai (1760-1849).

L’immagine è realizzata da un collage di fotografie digitali scattate nell’arco di cinque mesi, che vanno a comporre un quadro dal sapore classico che invita a una lettura metaforica. L’altra immagine, anch’essa arrivata a Basilea, è ispirata alla prefazione del romanzo dello scrittore afroamericano Ralph Ellison, premiato con il National Book Award nel 1953, che descrive la stanza sotterranea nella quale il protagonista vive per alcuni anni a New York, luogo del suo volontario esilio.

L’autore non dà molti dettagli del luogo, ma enfatizza il fatto che l’uomo invisibile ha collocato sul soffitto 1.369 lampadine. «Il mio buco è caldo e pieno di luce. Sì, pieno di luce. Io amo la luce», dice l’uomo simbolo dell’emarginazione dei neri: «Dubito che in tutta New York ci sia un posto più splendente di questo mio buco, Broadway compresa. (…) Senza luce io non sono soltanto invisibile, ma anche senza forma; e non sentirsi addosso la propria forma è vivere una morte».

Si tratta di un’opera manifesto, capace di sintetizzare, non solo la predilezione per un certo tipo di esperienza sociale ed esistenziale, ma anche di mettere in scena la definizione della fotografia stessa.

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