«Questa non è una finzione, non è un documentario, è un avvertimento» è l’allarmante premessa di 2073, il documentario shock del regista premio Oscar Asif Kapadia che ci catapulta a New San Francisco, capitale delle Americhe, in un futuro distopico in cui i peggiori incubi del nostro tempo sono diventati realtà.

Il mondo devastato da un cataclisma climatico è in pugno a un élite di miliardari hi-tech, i droni di sorveglianza che invadono i cieli e la polizia ormai militarizzata che pattuglia le strade indicano che la sicurezza ha preso il sopravvento sulla libertà. Un futuro prossimo nato dalle crisi attuali, tra cui l’autoritarismo, il cambiamento climatico incontrollato e la crescente disuguaglianza sociale.

Mischiando fantascienza, materiali d’archivio e interviste, 2073 non è solo un avvertimento sul futuro, ma anche un agghiacciante specchio del nostro presente. Presentato alla scorsa mostra di Venezia e al Biografilm Festival di Bologna in collaborazione con TopDoc, il film, da non perdere, esce come evento nelle sale il 16,17 e 18 giugno distribuito da FilmClub insieme a Minerva Pictures.

Quando uscì il suo film su Amy Winehouse lei disse: «Il segreto per un buon documentario è mantenere sempre una distanza dal proprio soggetto». Come si può mantenere un distacco dalla catastrofe politica, ecologica e sociale già in atto?

Mi sembra sinceramente di essere su un altro pianeta in confronto agli anni in cui ho realizzato i miei film biografici Senna, Amy e Maradona. Il mondo sembrava più semplice e ingenuo, e pensavo che raccontare i grandi protagonisti dei nostri tempi potesse bastarmi. Sono ancora convinto che bisogna mantenere una distanza, ma questo film è diverso.

È nato dalla sensazione che stava succedendo qualcosa di terribile intorno a me, e più continuavo ad essere spettatore di un disfacimento mondiale, più mi chiedevo: «Ma dove sono finiti gli adulti? Come possiamo fermare il disastro?». Poi mi sono reso conto che l’adulto sono io, sono abbastanza grande da aver protestato contro l’apartheid, la guerra in Iraq, la poll tax (tassa sulla persona) e Margaret Thatcher.

Oggi se protesti rischi di finire in prigione e di essere bollato come terrorista, quindi mi sono detto: l’unica cosa che so fare è realizzare film. Mi sono concentrato sull’ultimo decennio che è stato influenzato da due grandi eventi: il primo è l’11 settembre che ha forgiato l’identikit di chi poteva essere un terrorista, sdoganando la stigmatizzazione dei musulmani e la guerra preventiva; l’altro è la crisi finanziaria del 2008, durante la quale molti Paesi hanno salvato le banche lasciando, con l’austerity, un terreno fertile ai leader populisti che spronavano le persone a non fidarsi più dei loro governi, colpevoli di far subire ai cittadini gli errori delle banche.

Non teme che un film così anti-establishment le si possa ritorcere contro?

Io non ho un capo, non lavoro per nessuno e quindi approfitto della mia posizione. Non sa quanti amici condividono le mie stesse preoccupazioni ma non osano reagire per paura di perdere il lavoro, poiché i loro contratti vietano di esprimere un’opinione politica.

Immagino che sia stato molto difficile ottenere i finanziamenti per questo film…

È stato davvero difficile. Ho iniziato il film durante la pandemia del 2020, in un momento particolarmente distopico in cui aveva vinto la Brexit. Avevo una brutta sensazione legata alla crescita dei nazionalismi, a una democrazia sempre più fragile e in balia della propaganda mediatica, così ho iniziato a intervistare via Zoom centinaia di giornalisti in tutto il mondo per capire se anche loro percepivano un pericolo nei loro Paesi.

E a Hong Kong, in India, in Brasile, negli Stati Uniti, in Italia, tutti erano concordi sul fatto che non avevamo mai vissuto una situazione politica simile prima. Sembrava che il denominatore comune fosse la tecnologia che aveva in qualche modo sincronizzato il mondo su una frequenza negativa. Ho fatto molte ricerche insieme alla mia squadra, abbiamo raccolto dei filmati dai social media e li abbiamo montati. Non avevamo budget, ma usando spezzoni di film, di documentari e di materiale d’archivio siamo riusciti a confezionare un cortometraggio di circa 10 minuti in stile fantascientifico. Ho aggiunto un paio di presentazioni con le mie intenzioni e le persone da intervistare, e ho presentato il progetto ai possibili finanziatori.

Durante questa fase mi sono reso conto che il cinema è veramente in mano a pochi potenti che non vogliono problemi. Alla fine Film 4 ha accettato il progetto nel Regno Unito, poi si sono uniti la Neon e la Double Agent, una nuova società che non ha mai girato un film. Non so se sapessero a cosa andavano incontro (risata).

Il cinema documentario deve scuotere le coscienze? È un caso che se ne producano sempre di meno?

L’informazione non sembra avere un grande impatto sulle persone, è come se vivessimo in uno stato di amnesia costante, in cui si dà la colpa di tutti i mali agli immigrati. Per non parlare dell’ingerenza della tecnologia nelle nostre vite, l’intelligenza artificiale è ovunque ed è chiaro che ruberà il lavoro a molti.

Questo non fa altro che arricchire i pochi potenti che ora lucrano più che mai sulle guerre, quindi se riesco a fare un film non ho nessuna intenzione di essere gentile, discreto e positivo. Perché se uno gira un film drammatico, scrive un romanzo, compone un brano musicale o crea un dipinto può essere scioccante, e invece se fai un documentario no? Non sa quanti finanziatori mi hanno detto: «Ma è un progetto troppo cupo, il mondo ha bisogno di speranza!». 

Vuole dire che il pubblico è sempre più sedato da rassicuranti documentari formattati?

Sì, c’è un cliché su cosa debbano essere i documentari e io mi rifiuto di giocare a quel gioco. Quando vedo un film di Michael Haneke ne esco sconvolto, c’è un malessere che inizia ad abitarmi e a farmi riflettere sul perché della mia reazione.

Voglio fare la stessa cosa, un’opera che rimanga dentro, emotivamente o psicologicamente, e che abbia una valenza collettiva, non solo legata a un personaggio o all’esperienza solitaria del singolo spettatore, per questo è importante che il film venga visto in una sala insieme agli altri.

Alla fine non è più semplice realizzare un film di finzione? 2073 in qualche modo lo è: un ibrido tra fantascienza e realtà con la partecipazione di una grande attrice come Samantha Morton.

Assolutamente sì, è più facile farsi finanziare un film di finzione perché in genere c’è una star che accontenta tutti, anche se non c’è un lieto fine va tutto bene, perché gli americani non muoiono mai, però un film del genere costa ormai cento milioni di dollari e io non ce l’avrei fatta a realizzarlo.

A me piace lavorare lentamente, fare ricerche, avere più controllo e lavorare con una troupe ridotta. Ho usato il documentario come un cavallo di Troia per creare un film di fantascienza, l’ho farcito di materiale d’archivio, e per renderlo epico e terrificante, ho usato testimonianze e immagini reali del presente che provengono da 60 Paesi.

Mi sono molto ispirato al romanzo La strada di Cormac McCarthy e al cortometraggio La jetée di Chris Marker che adoro. Volevo realizzare un film saggio sullo stato del mondo usando gli strumenti del cinema di genere.

Cosa possiamo fare noi cittadini per evitare la catastrofe di The event?

Penso che ci siamo già dentro, tra 10 anni la democrazia potrebbe finire, anche il nostro pianeta ha gli anni contati. Non credo di avere una risposta per tutti ma sicuramente dovremmo prendere meno alla leggera la cessione sistematica dei nostri dati personali e delle nostre impronte biometriche.

Sono andato ultimamente in un museo vicino Napoli, i bambini entravano gratis, ma per farlo dovevamo dare online tutte le loro generalità. Perché dei minori sono costretti a dare i loro dati? Perché le aziende e i datori di lavoro monitorano sempre di più la nostra vita privata mettendo nei contratti delle clausole che ci impediscono di esprimere le nostre opinioni personali?

Crede che un documentarista sia una versione migliore di un giornalista?

Mi sento in parte artista, in parte giornalista, in parte investigatore e in parte umanista. Ogni film per me è come fare una tesi su una nuova materia. Sono stato fortunato ad avere successo, questo mi ha permesso di rischiare. Molti mi hanno detto: «Questo film non verrà mai distribuito, lo sai…», altri: «Preferiamo non essere associati al tuo progetto perché poi potrebbero prendersela con noi». Se questo non vuol dire vivere in un nuovo fascismo…

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