Quando ho cominciato a frequentare l'università e mi sono trasferito a Bologna, il mondo delle lettere ha cominciato ad apparirmi sotto una lente nuova: non esistevano più solo la narrativa, la poesia o la filosofia, ma si apriva un nuovo e sterminato mondo, quello della critica. Così, sbirciando tra gli scaffali delle librerie e consumando la tessera della Sala Borsa in cerca degli anfratti libreschi più nascosti, si aprivano con sorpresa le pagine di Cristina Campo, Cesare Garboli e Roland Barthes, si scoprivano maestri che a Bologna avevano insegnato e che occupavano i programmi d'esame come Mario Lavagetto e si provava l'ebrezza dell'Umberto Eco non romanzesco (ovviamente troppo mainstream per uno studente di lettere), delle complicate, ma appaganti, pagine di La struttura assente o del Trattato di semiotica generale.

Se anche non sempre andavo fino in fondo a ogni libro (quelli del filosofo Jacques Derrida mettevano per esempio molto alla prova la pazienza), ben presto capii che non si trattava di una tragedia perché c'era qualcos'altro che cominciava ad attirarmi in maniera inarrestabile, ovvero il suono della lingua, l'ordine delle parole e l'organizzazione del pensiero, la possibilità di mettere il «massimo della chiarezza al servizio della massima oscurità», per rubare le parole che Giacomo Debenedetti usa per un altro degli amori nati in quegli anni, Tommaso Landolfi.

In poche parole scoprii l'importanza dello stile: era proprio quello a scatenare in me una sorta di sindrome di Stendhal davanti ad Angelus novus di Walter Benjamin, alle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein o agli scritti di Giorgio Colli sui filosofi presocratici e cominciò a nascere anche un desiderio non di di emulare (sarebbe troppo) questi maestri di carta, ma di farsi ispirare dal loro modo di raccontare, dalla possibilità, lì perfettamente realizzata, di farsi capire con una lingua così magica. Quando allora ho cominciato a scrivere, come capita a molti, l'ho fatto guardando a questi risultati esemplari, immaginando le forme di una scrittura che tentasse di replicare, senza scimmiottare, l'acutezza di quello sguardo, e tra gli incontri di quegli anni ce n'è uno di cui ancora avverto il lento rilascio, quello con Roberto Longhi.

Chi era

Storico dell'arte, per anni docente all'Università di Bologna e poi a Firenze, autore di un libro imprescindibile su Caravaggio, Longhi non ha solo dato contributi fondamentali allo studio dell'arte, ma con la sua prosa e il suo particolare sguardo sulle cose ha influenzato alcuni degli scrittori più importanti del Novecento italiano, come Pasolini, Bertolucci e Bassani, che frequentarono i suoi corsi rimanendone segnati, Anna Banti, l'autrice del romanzo Artemisia che fu sua moglie e che creò un contraltare femminile al mito del marito, e Giovanni Testori, che pubblicò il suo primo saggio proprio sulla rivista diretta da Longhi, Paragone. E proprio a Pasolini (in un testo che oggi si legge in Descrizioni di descrizioni) si deve uno splendido ricordo del Longhi docente universitario nelle aule di Via Zamboni che risente anche del modo di osservare del suo maestro: «Se penso alla piccola aula (con banchi molto alti e uno schermo dietro la cattedra) in cui ho seguito i corsi bolognesi di Roberto Longhi, mi sembra di pensare a un'isola deserta, nel cuore di una notte senza più una luce. E anche Longhi che veniva, e parlava su quella cattedra, e poi se ne andava, ha l'irrealtà di un'apparizione. Era, infatti, un'apparizione. Ciò che Longhi diceva era carismatico. Solo dopo è diventato il mio vero maestro. Allora, in quell'inverno bolognese di guerra, egli è stato semplicemente la Rivelazione».

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Leggere Pasolini, Bassani, Testori e Banti alla luce dell'opera di Longhi, individuare quindi una vera e propria “funzione Longhi” nel Novecento italiano («la cultura di mezzo Novecento è longhiana almeno quanto è crociana» ha scritto giustamente Marco Antonio Bazzocchi), consente forse di avvicinarsi ancora di più al cuore di queste opere e all'ispirazione di questi scrittori: così l'arte di Pontormo che innerva La ricotta di Pasolini (che dedica a Longhi il suo film Mamma Roma) rivela il suo debito con Longhi, così come gli sguardi e le immagini in cui Bassani cristallizza ciò che desidera esprimere nelle sue opere, da Gli occhiali d'oro alle Cinque storie ferraresi, o il racconto di Anna Banti della storia di Artemisia Gentileschi, la pittrice seicentesca che si trasforma in un nuovo e longevo mito femminile.

Il sacro Graal per me, nuovo adepto longhiano, era il volume curato da Gianfranco Contini, altro maestro della lingua e dello stile, Da Cimabue a Morandi, una storia dell'arte apocrifa, pubblicata dopo la morte di Longhi, senza immagini, cosa paradossale per un libro d'arte, assenza che però forse suggeriva come di Longhi potesse bastare anche solo la parola. Da Cimabue a Morandi è un'antologia che raccoglie scritti su Giotto e Piero della Francesca, sull'arte lombarda e Caravaggio, ma al di là della varietà degli artisti raccontati con uno sguardo sempre acuminato, spicca la levità assoluta dello stile, l'idea che la parola possa riuscire nel miracolo dell'ekphrasis, nel tradurre sulla pagina i valori intraducibili del figurativo (in uno di questi saggi Longhi scrive della necessità che «l’intuizione mistica del quadro e la costituzione linguistica del quadro, diventino una sola operazione simultanea»).

Il ritorno in libreria

Dopo una lunga e colpevole assenza degli scaffali delle librerie Da Cimabue a Morandi viene adesso ripubblicato da Einaudi nella gloriosa collana “I millenni” con la cura di Cristina Acidini e di Maria Cristina Bandera: si tratta di un'edizione diversa, arricchita da un testo di Lina Bolzoni, da saggi introduttivi per ogni capitolo e da un corposo apparato iconografico, ma rimane ovviamente intatta la qualità di una prosa in cui ogni dettaglio visivo viene tradotto in parole e l'osservazione si trasforma in scrittura, come emerge chiaramente, per esempio, nella descrizione del Battesimo di Cristo di Piero della Francesca: «Entro una chiostra di colline nostrane, coperta da culture antiche e pressoché ridivenute orme spontanee di un'attività animale, in un mese senza guerre né fazioni sicché il greto del fiume che scorre attraverso la contrada è senza macchie di sangue, tronconi di lance, piastre di usberghi, ma schietto e secco e con le sole stampiglie brune di qualche piantina effimera, scintilla la calce di una città lontana. Nell'ora senza vento l'acqua riflette cielo e colline con infallibile speculazione. Si taglia su quell'acqua la figura di Cristo, sospesa in atto di adorazione».

Il libro si apre con una splendida fotografia che ritrae Longhi, elegantissimo in un abito chiaro e appoggiato a un bastone, su un'impalcatura ad Assisi, davanti a uno dei portoni di San Francesco, con il cappello appoggiato sulla testa leggermente reclinata e l'ombra che si adagia sugli occhi che così sembrano socchiusi. Nel segreto della vista, di quegli occhi, risiede il mistero di Longhi che cerco di conoscere, l'enigma di una scrittura, come ha scritto Cesare Garboli, che «presuppone non la vocazione dello scrittore, ma l'ansia di decifrare e di percorrere con lo sguardo un quadro e di leggerlo. È il quadro a produrre lo scrittore, nel momento in cui lo scrittore costituisce linguisticamente il quadro».

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