A un certo punto della mia vita, ho partecipato alle olimpiadi di matematica. Avevo undici anni, una sola amica e la mia esistenza era in balia della scuola (almeno fino a giugno, nei mesi estivi vivevo in funzione del Festivalbar). Potremmo dire che ero una secchiona, se si può essere considerati tali già in tenera età: andavo bene in tutto, anche nella terribile matematica.

La professoressa che ci insegnava matematica alle medie, che ricordo con affetto soprattutto perché era poco più alta di noi bambini (un pochino più bassa di quelli che avevano già raggiunto la pubertà), era una signora sbrigativa e molto brava nel suo lavoro (oggi scrivo signora, ma può darsi che avesse la mia età adesso e che solo per la scarsa cognizione del mondo che possedevo al tempo mi sembrasse una vecchia ciabatta).

Ogni anno selezionava il più bravo o la più brava di ogni sezione e lo mandava a gareggiare, e oggi confesso con un misto di vergogna e orgoglio, stati d’animo spesso inestricabili l’uno dall’altro nella mia personale esperienza, che la più brava delle prime medie della scuola Don Cavalli di Parma nel 2003 ero io.

Il mio giorno alla Bocconi 

Non mi ricordo di essermi sentita in nessun modo quando appresi che avrei partecipato alle olimpiadi della matematica, non ero fiera, né agitata, era solo qualcosa che dovevo fare in quanto bambina che andava bene a scuola.

Studiare non era mai stato un patema, i miei genitori non si erano mai seduti al mio fianco per controllare che facessi tutti i compiti, nessuno dei due mi aveva dovuto spiegare i fondamenti dell’algebra. Nessuno dei due probabilmente ne sarebbe stato in grado. Provenendo da una famiglia di umanisti e dintorni, questo mio exploit matematico era un evento degno di nota.

Quando nel primo girone mi classificai al primo posto tra tutti i candidati della mia città, l’evento degno di nota si tramutò in una vera e propria anomalia, sufficientemente allarmante da costringere mio padre e mia madre, che all’epoca si rivolgevano malvolentieri la parola, ad accompagnarmi alle finali di queste benedette olimpiadi.

Le finali si svolgevano all’università Bocconi di Milano e mentre mio padre raccoglieva tutte le brochure che riusciva a trovare, emozionato all’idea che la sua prima e unica figlia fosse avviata sulla strada del profitto invece che su quella delle velleità letterarie che da generazioni affliggevano la nostra famiglia, io prendevo posto in un’aula universitaria tra centinaia di ragazzini presumibilmente privi di vita sociale, proprio come me.

Alla Bocconi non avrei raggiunto risultati brillanti, ma questa storia è comunque surreale e piuttosto divertente per chiunque mi abbia visto fare di conto. Oggi l’unica matematica che so applicare è quella che uso per calcolare le percentuali in tempi di saldi, ma se il calcolo non riguarda un paio di stivali è come se mi avessero asportato un pezzo di cervello, nello specifico quella che serve a fare le divisioni.

Con buona pace delle brochure di mio papà, finii per iscrivermi al liceo classico, dove la professoressa di matematica passava le poche ore che aveva a disposizione nella nostra classe a leggere il giornale e quando ci sentiva sghignazzare commentava placida «meglio che ridi che piangi», facendo dei danni anche sul piano della lingua italiana, oltre che su quello dei numeri.

La terribile matematica fu sostituita dal terribile greco, che come è noto è la matematica del classico, io acquisii una vita sociale e contestualmente smisi di andare bene in tutto, e se mai ci fu una versione di me con un potenziale da A Beautiful Mind ora vaga in solitudine da qualche parte nel multiverso.

Numeri e lettere

Mi sta bene. Stivali in sconto a parte non posso dire che la matematica sia mai più stata un tema rilevante nella mia vita da quel giorno alla Bocconi, e forse non lo era stata neanche prima. Ben diversa è l’esperienza di Pietro Minto, che nel suo libro appena pubblicato da Einaudi, La seconda prova, affronta il trauma della matematica con una modalità che più frontale non si può: ristudiando tutto il programma delle superiori come se dovesse dare di nuovo l’esame di maturità a vent’anni di distanza, un incubo che prima o poi abbiamo avuto tutti, lui con un focus particolare sulla terribile matematica.

Minto – che alle olimpiadi della matematica non credo abbia mai partecipato, dichiarando in incipit che con i numeri ha sempre avuto un rapporto a dir poco complesso – ha richiamato il suo professore del liceo e si è messo lì, e per un anno e mezzo ha ripassato i numeri, ma anche le lettere, che per tanto tempo gli hanno dato problemi.

«C’è una vecchia battuta che fa al caso nostro. Non ricordo di chi fosse, può darsi venga attribuita a Woody Allen come spesso succede agli aforismi da Smemoranda che non hanno una paternità chiara. Fa più o meno così: “Sono andato bene in matematica fino a quando non hanno cominciato a usare le lettere al posto dei numeri”. Ora, a parte il fatto che credo di essere andato male anche prima, è ovvio che lo sbarco del comparto alfabetico negli esercizi di matematica è traumatico per molti. A che serve usare a, b, y o z, quando ci avete appena insegnato che i numeri sono infiniti?» scrive Minto, risvegliando nei lettori antiche frustrazioni e rievocando parole che per me non hanno più alcun significato, ma che ebbero una certa centralità nei miei pomeriggi di studio: logaritmi, radicali, derivate sono parole prive di senso per chi non ha mai più pensato alla matematica, di sicuro lo sono per me.

Il libro di Minto però fa qualcosa di inaspettato e difficile e riesce nell’ardua impresa di accompagnarci in questo ripassone divertendoci, facendoci persino capire qualcosa (è un libro sulla matematica, con la matematica), aggiungendo tanti piccoli guizzi e curiosità sulla storia di questa materia da sempre ritenuta ostica e poco sexy, Russell Crowe escluso, e che può rivelarsi invece molto affascinante. Facile mai, ma per fortuna non dobbiamo ridare davvero la seconda prova.


La seconda prova. Imparare la matematica, vent’anni dopo (Einaudi 2024, pp. 176, euro 18) è un libro di Pietro Minto

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