Tra i tanti aspetti della persecuzione del fascismo nei confronti degli ebrei che sono stati messi a sistema, ovvero analizzati e storicizzati, forse ne mancava ancora uno tra i più importanti: come il fascismo aveva gestito la complessa “questione ebraica” al di fuori dei confini del Regno, nei territori occupati in nord Africa, nella penisola Balcanica, in Francia, in Albania e in Grecia con tutte le sue isole.

Il libro di Michele Sarfatti I confini di una persecuzione (Viella, 2022) cerca, per la prima volta, di fare il punto proprio su quest’ampio argomento, riuscendo a diventare, grazie a vari meriti che cercherò in seguito di sintetizzare, il modello di riferimento per tutte le ricerche che in futuro si occuperanno di questa importante vicenda. Lo fa ribaltando l’ottica con cui ci si è sempre avvicinati al tema, mettendo al centro la questione ebraica come chiave di lettura per interpretare l'occupazione italiana di un determinato territorio.

Questa nuova dinamica d’analisi è molto simile a quello che è stato fatto dalla storiografica internazionale rispetto ai territori dell’est: per molti anni si era pensato che tutte le decisioni rispetto alla questione ebraica arrivassero direttamente da Berlino, oggi si è compreso che molte decisione di Hitler ed Himmler erano prese prendendo spunto da comportamenti messi in atto nelle periferie, di fatto regionalizzando la questione ebraica pur mantenendo linee guida condivise.

Sarfatti introduce un’ulteriore novità interpretativa che si collega al punto precedente: egli porta avanti la ricerca modificando la chiave d’indagine, non chiedendosi più se gli italiani hanno salvato o meno gli ebrei, ma come e perché è stato fatto con quali pratiche e politiche si è deciso della vita o della morte di questo popolo.

Tali brillanti intuizioni sono fondamentali per capire quanto la questione ebraica sia centrale anche nell’attuazione delle politiche italiane in guerra, perché questo è uno dei principali terreni su cui, nel concreto, si giocano i rapporti tra gli alleati cobelligeranti. Come altri paesi, a mio avviso, particolarmente interessante è il caso ungherese, dove le politiche antiebraiche, essendo così “care” ai tedeschi, diventano merce di scambio, di distinguo o adesione a seconda degli interessi di un preciso momento. In sostanza, la decisione di salvare o meno gli ebrei diventa politica a uso e consumo del regime. Merce di scambio, appunto.

Miti sfatati

Attraverso questa doppia nuova linea di attenzione, lo storico milanese tenta di rispondere, come egli stesso ci suggerisce in copertina, a un’ampia serie di domande, che permettono l’approfondimento del tema in oggetto: se il regime fascista introdusse ovunque la legislazione razziale; se Mussolini era a conoscenza dei massacri che si stavano consumando in Europa; come gestì i rapporti con Hitler rispetto alle richieste di consegna degli ebrei. Il testo di Sarfatti ci restituisce un panorama storico vasto e variegato.

La prima cosa che si percepisce dalla lettura è l’accuratezza dell’impianto storico-scientifico che, di fatto, mette i documenti al centro del saggio attraverso una ricchezza archivistica assoluta. Per la prima volta la panoramica sull’indagine è completa, perché vengono messi insieme tre punti di vista documentali: quello del Regio esercito, quello del ministero degli Affari esteri e, con questo saggio, la novità della documentazione dell’Amministrazione civile fascista di quelle zone. Questo libro ha un primo grande merito: smontare l’immagine ormai non più sostenibile degli italiani in guerra, quella degli “italiani brava gente”, restituendoci invece la complessità politica e storica di quegli avvenimenti. Purtroppo quest’aspetto della persecuzione ebraica, come tanti altri legati al comportamento degli italiani durante il secondo conflitto mondiale, è stato raccontato attraverso l’immagine desueta dell’italiano buono e del tedesco cattivo, che scarica tutte le responsabilità dell’accaduto nei confronti degli alleati nazisti, sovrastimando invece gli episodi di aiuto, che ci sono sicuramente stati, ma devono essere collocati in ambiti di manovra più ampi, e sicuramente di minor valore etico/morale.

Partiamo dall’introduzione delle leggi razziali oltre i confini del Regno. Tali provvedimenti non vennero mai applicati in maniera speculare all'interno e fuori dei confini nazionali: in quelle terre occupate dal fascismo, queste misure furono utilizzate sempre in maniera utilitaristica a seconda delle esigenze politiche del regime. In questo senso è paradigmatico l’esempio della Dalmazia, dove salvataggi e respingimenti furono applicati a secondo delle esigenze del momento. Anche in questo caso viene replicata una caratteristica che contraddistingue spesso l’operato di Mussolini e del governo fascista, ovvero l’opportunismo, per cui anche le misure più politiche o come si direbbe oggi “di bandiera”, sono sempre mediate dalla strategia e dall’utilitarismo più spinto.

Due erano le direttrici che guidarono il regime nelle colonie: gli interessi legati all’applicazione della legislazione razziale e l’amministrazione coloniale. I due aspetti non dovevano essere concorrenti, perché nessuna delle due politiche doveva recare danno al regime; per questo dovevano essere bilanciate e armonizzate tra di loro. Questo conferma il fatto che in Italia l’antisemitismo non era “una politica indipendente di carattere assoluto, bensì doveva essere raccordato all’insieme dell’azione governativa”.

Come ho già anticipato, il libro analizza una pluralità di aspetti, ma a mio avviso due di questi sono particolarmente importanti: il comportamento delle truppe italiane all’estero di fronte agli ebrei e il livello di consapevolezza dello sterminio ebraico con il conseguente ruolo di Mussolini.

Mussolini e il fascismo conoscevano benissimo le politiche dei tedeschi nei confronti degli ebrei, sapevano chiaramente che i nazisti stavano attuando una guerra di sterminio in tutta Europa.

La questione venne affrontata in maniera cinica e pragmatica, rispettando le sfere d’influenza germaniche. Sarfatti definisce tali politiche “di pertinenza”, utilizzando un atteggiamento calcolatore per gestire un aspetto così sensibile per i tedeschi. Lo dimostrano numerosi resoconti e decisioni prese in merito al governo degli ebrei nei vari territori dove esisteva coabitazione tra tedeschi e italiani. Esempio concreto di questo atteggiamento sono i tre treni carichi di ebrei macedoni che attraversarono il territorio kosovaro in quel momento occupato dagli italiani che avevano rilasciato il nulla osta.

Calcolo

Il comportamento del Regio Esercito rispetto agli ebrei ha alimentato il mito degli “italiani brava gente”, perché le autorità militari hanno effettivamente avuto un atteggiamento protettivo nei confronti degli ebrei, ma non per scopi etici/morali/umanitari, ma perché questi salvataggi avevano per l’esercito un utile politico. Questi comportamenti messi in capo dal Regio Esercito (e dal ministero Affari esteri) devono essere messi a confronto con quelli attuati dal potere civile fascista, che invece si comportò sempre in maniera apertamente antisemita, prima espellendo gli ebrei e poi consegnandoli ai nazisti.

Questi due aspetti a mio avviso sono importanti sia per capire l’atteggiamento di fondo del regime, suddiviso in tutte le sue articolazioni, e allo stesso tempo per capire quanto le dinamiche italiane fossero simili a quelle tedesche, pur senza arrivare all’abisso della decisione della soluzione finale.

Anche nelle politiche antisemite tedesche vi erano differenti punti di vista sul destino degli ebrei, tra chi li voleva sfruttare economicamente, utilizzandoli come strumento di scambio politico, e chi voleva semplicemente sterminarli. Nessuna di queste, sia dal punto di vista storico che da quello politico, possono essere considerate dinamiche che cambiano il giudizio su quanto è tragicamente avvenuto.

Da appassionato di libri di storia non posso che ringraziare Sarfatti, uno studioso che scrive addetti ai lavori, ma i cui testi dovrebbero essere divulgati verso un pubblico sempre più ampio, perché ci insegna come si studia e si approfondisce la storia e le storie in essa contenute. Troppo spesso troviamo sugli scaffali delle librerie volumi che non aggiungono nulla a quello che già sappiamo o che sintetizzano assolutizzando la narrazione storica che è sempre molto complessa e sfaccettata.

Un libro come questo ha un altro respiro, un respiro di giustizia nei confronti delle storie di quegli ebrei che hanno subito le politiche antiebraiche fasciste al di fuori dei confini del Regno.

 

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