Una volta, al bancone di un bar di un remoto quartiere di Brooklyn, lo scrittore norvegese Karl Ove Knausgård mi ha confessato di aver venduto l’anima e la famiglia al diavolo per scrivere il suo primo romanzo di successo. Ci credeva davvero. E se non ci credeva, se per lui era una boutade, una battuta di spirito, una frivolezza, non lo dava a vedere. È norvegese, è molto difficile capire quando stia scherzando.

Fino a qualche giorno fa era al mondo un altro scrittore del quale non era facile sapere cosa stesse realmente pensando e che, come Knausgård, aveva fatto della pagina scritta il suo confessionale privato, convinto, come lo sono gli uomini di grande inventiva e i grandi illusi, che nessuno se ne sarebbe davvero accorto – o che nessuno, comunque, gli avrebbe creduto.

A chi avesse venduto anima e affetti Martin Amis per scrivere romanzi come Il dossier Rachel, del 1973, Money, pubblicato originariamente nel 1984 e comparso in Italia solo nel 1999, Territori londinesi, del 1989, o Lionel Asbo, del 2012, non lo so; però sono abbastanza sicuro del fatto che li avesse impegnati per scrivere il suo primo memoir, Esperienza, pubblicato nel 2000. E in qualche modo riscattati, impegnati di nuovo guadagnandoci di meno o spacciati sottobanco al mercato nero per dedicarsi a La storia da dentro (appena uscito in Italia per Einaudi e tradotto da Gaspare Bona).

Lo so perché la precisione non è qualcosa che si insegna ai corsi di scrittura e il vaticinio tanto meno. A certi livelli, sono doti divine. E Amis era benedetto da una precisione e un tempismo quasi assoluti, soprattutto nello scrivere di sé. Prediceva il suo destino basandosi su quello delle persone alle quali voleva bene e ne traeva una linfa simile all’ispirazione letteraria, ma che aveva molto più in comune con la preveggenza. Sapeva leggersi con la stessa crudele, quasi brutale, ironia con la quale per cinquant’anni ha letto e definito il mondo che si è trovato a esplorare, fatto soprattutto di “comiche idiozie” e “geniali rocamboleschi colpi di scena”.

Quando cominciò a scrivere Esperienza, nel 1995, era appena morto Sir Kingsley Amis, suo padre, celebrato scrittore umoristico.

Il padre

Non deve essere facile seguire le orme paterne lungo la strada della scrittura. Ma è ancora più difficile dovere assistere a un’uscita di scena, per quanto attesa e tardiva. Trovarsi, a un certo punto, senza più il riferimento primario che, per emulazione o contrasto, aveva acceso la scintilla del fuoco letterario.

Marty guardava Kingsley e vedeva contemporaneamente il suo passato e il suo futuro. Vedeva incarnati i primi consigli che aveva ricevuto, le cattive abitudini alle quali si era abituato, le ultime parole che avrebbe mai scritto o pronunciato. Kingsley gli aveva regalato un mantra: «Parlane quanto vuoi, e se vuoi non parlarne». Era la formula introduttiva con la quale cominciava ogni argomento delicato e, per quanto riguarda la nonficiton di Amis, era diventata una regola aurea.

Ora, nel corso di quel primo giro apertamente autobiografico – anche se, come è normale e come dichiarava lui stesso, i lettori attenti dei suoi romanzi dovevano sapere già tutto di lui – aveva tratto dal veder scivolare via la sua roccia una serie di riflessioni sulla vita che aveva trasformato in una specie di sequenza di lettere aperte alla famiglia e agli amici; confessioni di comicità imbarazzante e di sorprendente impudicizia, per celebrare l’uomo che lo aveva portato al mondo ma che, soprattutto, aveva generato lo scrittore.

Era così: quando nella sua vita accadeva qualcosa di sconquassante, la processava scrivendoci sopra. Per lui significava immergersi nel fondo del fondo del grottesco del suo soggetto per ricavarne quanta più sincerità fosse possibile, riderne senza rimorsi e quindi riabilitarlo. C’è una scena, in Esperienza, che ben riassume questa predisposizione all’altruismo mascherato da crudeltà: Kingsley che, camminando per una strada di Londra, cade rovinosamente in avanti. Marty lo guarda, lo vede, lo inquadra, lo fissa nella memoria e d’un tratto lo definisce: «Non un inciampo o un capitombolo. Un’opera di colossale amministrazione». Un crollo magistrale, insomma, utile a mettere in prospettiva in un solo colpo uomo, artista e genitore, e a consegnarlo per sempre alle memorie familiari senza risparmiarsi né l’ironia dello scrittore, né lo sguardo intenerito e preoccupato del figlio che vede il padre cadere.

The Hitch

Quando cominciò a lavorare a La storia da dentro, l’ultimo dei suoi amici era ancora vivo.

Prima cercò ispirazione osservando albe e tramonti su una spiaggia uruguayana, senza riuscire a buttare giù nemmeno una frase, poi scrisse qualche capitolo di una specie di autobiografia, che intitolò Vita. Un romanzo; di fronte all’imbarazzo auto-indotto per la pomposa banalità di quell’idea, decise di lasciar perdere. Vita era morto, non lo avrebbe resuscitato. Erano i primi anni Duemila e si stava per dedicare a La vedova incinta, uscito poi nel 2010. I tempi per un altro memoir non erano maturi e, si disse, forse non lo sarebbero mai stati.

Fu la morte di Christopher Hitchens a fargli riprendere in mano il manoscritto, o per lo meno a farlo tornare sui suoi passi e a fornirgli l’impulso autobiografico. Con la sua fine, era crollato l’ultimo dei tre pilastri sui quali, letterariamente, si reggeva. The Hitch non era solamente una fonte di ispirazione, era un compagno fraterno e una specie di modello di vita. Era comparso spesso qui e là nei saggi e negli articoli di Amis, ogni volta incarnando un personaggio tanto fedele all’originale da rendersi poco credibile. Oltre a lui, ma avvolti da un velo di romanticismo un pelo superiore, c’erano Saul Bellow e Philip Larkin, passati da un universo all’altro relativamente nel 2005 e nel 1985. A incombere sopra questa triade, che con Amis formava un quartetto sempre impegnato in un singhiozzante scambio di idee, opinioni e stoccate sotto la cintura, aleggiava lo spirito di Vladimir Nabokov, mai conosciuto di persona ma apertamente venerato, dal quale, per citare Salman Rushdie, aveva ereditato un’elevazione intellettuale tale da astrarlo dal personaggio.

Quando anche Hitch, nel 2011, prese rumorosamente come faceva lui la via dell’inintelligibile, Amis si guardò le spalle e trovò il vuoto. «Gesù Cristo, sono morti tutti», si disse, e finalmente si sentì completamente libero di scrivere di sé attraverso di loro.

La storia da dentro è contemporaneamente una lettera d’amore, un testamento e un esercizio di stile. Che poi, nella poetica di Amis, sono sempre stati piuttosto intercambiabili. Raramente gli era capitato di scrivere qualcosa di stilisticamente timido e benché non si riconoscesse nella descrizione, masticava il postmodernismo meglio di molti suoi contemporanei – in La freccia del tempo, romanzo del 1991, il tempo del racconto scorre all’indietro, in più di un’occasione si è tuffato direttamente nelle scene come personaggio secondario, e il “preludio” del nuovo memoir è un lungo discorso diretto rivolto a un lettore appena arrivato, del quale leggiamo solo la parte del narratore; allo stesso modo, non c’è nulla che abbia pubblicato che non contenga un monito per i posteri, un insegnamento di vita o che non trasudi della certezza che le parole durano più dell’esistenza di chi le ha scritte – in una raccolta del 1983 intitolata The Moronic Inferno dà una lettura così lucida e impietosa dell’America da resistere alla storia, rinnovata ciclicamente e incisa sulla pietra con Il secondo aereo, un insieme di riflessioni cominciate all’indomani dell’11 settembre 2001.

«Amava chiunque»

Per quanto riguarda la lettera d’amore, occorre di nuovo citare Rushdie: «Amava chiunque incontrasse. Più lo trattava male, più gli voleva bene. Se lo brutalizzava, c’era da stare tranquilli, lo avrebbe sposato».

In casa sua, a Brooklyn, nella biblioteca del suo studio c’è un lungo scaffale dedicato ai suoi libri. «Da qui a qui, sono io», diceva a chi andava a trovarlo. Leggendo La storia da dentro si ha la sensazione di trovarsi un una versione espansa e dettagliata di quello scaffale, che contiene la sua vita elaborata attraverso il meccanismo narrativo e da una sfilza di influenze, conoscenze, ansie, idiosincrasie e giudizi imperiosi densi di ironia britannica che erano la sua cifra stilistica e vitale.

Da chiunque abbia incontrato – Bellow già vecchio ma ancora più in forma di lui a trentotto anni, Larkin filtrato dall’ombra tracotante di Kingsley specialmente in fatto di ragazze, Hitchens che era Hitchens e non poteva fare a meno di farlo notare – alle donne che ha frequentato – tutte condensate nell’unico totemico personaggio di fantasia presente nel libro, Phoebe Phelps, che riscatta il genere – ogni particolare dell’ultimo, sorprendente, memoir è un lascito spassionato per i lettori, per i familiari e soprattutto per gli amici. Quelli che sono rimasti. Quelli che hanno osato fargli l’affronto imperdonabile di sopravvivergli.

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