La letteratura è piena zeppa di scrittori immaginari (ma del tutto verosimili). Lasciando da parte la numerosissima galleria degli scrittori che si sono dotati di un alter ego – su tutti Fante con Arturo Bandini, Bukowski con Henry “Hank” Chinaski, Roth con Nathan Zuckerman – la bibliografia di opere il cui protagonista è uno scrittore di pura invenzione è molto lunga.

Si va dalla Morte a Venezia di Thomas Mann a Wonder Boys di Michael Chabon, dal Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce al Pomeriggio di uno scrittore di Peter Handke. Non potrebbe essere diversamente. L’autorialità di uno scrittore passa anche dallo studio del proprio lavoro (la domanda è: perché scrivo come scrivo?), quindi è un’esigenza quasi naturale a un certo punto rendere la scrittura stessa materia narrativa.

La letteratura che pensa sé stessa

Recentemente però, almeno nel panorama nazionale, nel vasto insieme della letteratura che pensa a se stessa, sono affiorate delle opere con delle caratteristiche in comune. Anzitutto, narrano dello scontro tra due paradigmi editoriali antitetici, la scrittura di progetto contro il bestsellerismo, la letteratura contro il genere, l’impegno intellettuale contro il disimpegno dell’intrattenimento puro. Si potrebbero chiamare comiche, anzi umoristiche.

Tutto l’umorismo è tragico. Bisogna partire da questo assunto di Luigi Pirandello – celebre un suo saggio nel quale definisce l’umorismo come «sentimento del contrario», ridere cioè equivarrebbe a smentire la realtà – per immergersi nella lettura di questi romanzi metaletterari che vogliono riflettere sul mondo editoriale. Aveva inaugurato il filone del pamphlet narrativo sulfureo Antonio Manzini con Sull’orlo del precipizio, storia di uno scrittore costretto a pubblicare per la Sigma, un editore cattivo che tenta di smantellare la Letteratura italiana a favore della Comunicazione in lingua indigena (i suoi editor sono figuri a metà strada tra i Bravi di Manzoni e le Iene di Tarantino).

La presentazione letteraria

Giampaolo Simi per Sellerio dedica al mondo editoriale Sarà assente l’autore. Soprattutto vengono rappresentate – e distrutte – molte delle tappe a cui un autore deve sottoporsi oggigiorno per promuovere la sua opera (sì, già da qualche tempo scrivere a tavolino è diventata l’occupazione meno faticosa di uno scrittore). La presentazione letteraria, per esempio, è una delle tappe salienti di questa via crucis.

Ma è tutto in perdita, i costi sono sempre superiori ai ricavi, fatta eccezione per gli scrittori di bestseller, spesso giallisti, i cui eventi di solito straripano di gente (le pagine dedicate al Festival sono tra le più esilaranti). E così, mentre la sala della libreria resta vuota, lo scrittore continua a ripassare i punti salienti del discorso che vorrebbe fare al pubblico che non si presenterà: «La putrescenza morale come infertile oblio della propria seppur cieca trascendenza» o anche «L’antropomorfizzare il prodotto per deumanizzarne la produzione». Cos’è questa scena se non il perfetto «sentimento del contrario» tra percezione e realtà?

Poi pare accadere un piccolo miracolo, qualcuno entra in libreria e si mette seduto. Ma Giampaolo Simi non ha pietà: «Da quando avevano chiuso il piccolo supermercato dotato di aria condizionata, gli anziani del circondario si fermavano tutti i giorni con i loro badanti a prendere un po’ di fresco in libreria. Mai che avessero comprato un libro».

Gli scrittori zombie

Anche Giovanni Mariotti mette in scena una storia editoriale per La nave di Teseo ne I manoscritti dei morti viventi, dove la protagonista della vicenda è la nuova responsabile della narrativa italiana di un’importante casa editrice, la cui sede, tratteggiata con pennellate intrise di una metafisica bituminosa e dechirichiana, somiglia molto all’architettura di Segrate. La donna, ribattezzata causticamente «addetta all’industria della Fama», vorrebbe scovare nel settore dei manoscritti rifiutati il Grande Scrittore, salvo essere ammansita dal suo superiore: «Anche se tra queste cartacce ci fosse il Grande Scrittore tu non saresti in grado di riconoscerlo. Nessuno è più in grado, nessuno!».

La vicenda poi ha una svolta weird, e la responsabile della narrativa italiana incontra uno zombie autostoppista. E se si trattasse di un morto tornato per promuovere il suo manoscritto? «Non solo i manoscritti erano troppo numerosi perché potessi leggerli tutti ma ogni giorno ne affluivano di nuovi. La qualità si divincolava nelle spire della quantità (…) Ero cosciente che molti estensori di manoscritti si sentivano vittime di una meritocrazia al rovescio, dell’imbarbarimento del gusto, di complotti nelle Alta Sfere».

Ucronie editoriali

Queste storie hanno il merito di far ragionare il lettore sulla letteratura come forma d’intrattenimento e sulla cultura bestsellerista. Certo, i best seller ci sono sempre stati. C’è sempre stato un gruppo di libri che ha venduto più degli altri in un determinato lasso di tempo. E a scorrere le classifiche del passato c’è da restare abbastanza allibiti: Liala ma anche Sciascia, Invernizio ma anche Buzzati, Melissa P. ma anche Rovelli. Non solo intrattenimento quindi, e in fondo anche l’intrattenimento può essere di volta in volta stupido o intelligente.

Tutto bene allora? Non proprio, perché il singolo best seller è cosa molto diversa dal bestsellerismo. Il bestsellerismo è un modo di pensare secondo cui l’aspetto estetico è legato al dato di vendita (tradotto: se un libro vende è bello per forza). Il problema non è il libro di successo, ma il tentativo da parte dell’editoria globale di replicarlo a ogni costo. Così il best seller non è più una categoria merceologica bensì un genere letterario, un modello per la scrittura di altri libri.

Le caratteristiche sono ormai note: la variazione narrativa deve dettare legge (una sorta di vero e proprio doping letterario); la tecnica soverchia lo stile (l’autorialità viene sostituita dal nome dell’autore in quanto brand); la lingua non deve creare resistenza al lettore (da qui la proliferazione di romanzi italiani che sembrano tradotti dall’inglese, o quantomeno rispondere a dei formati linguistici standard). Insomma uno scrittore alla classica domanda su quale genere di libri scriva potrebbe rispondere: «Il genere di libri che ha successo». Sembra folle, ma è così.

Tabula rasa

Giampaolo Simi con la sua mimesi ironica e Giovanni Mariotti con il suo horror grottesco pervengono allo stesso risultato (da ultima spiaggia?): ridere per non piangere. Ma da dove viene l’esigenza di ridere grazie a questi libercoli metaletterari, a queste storie di scrittori? La risata, si sa, è uno degli elementi dirompenti di cui è dotato l’essere umano. Quando una situazione diventa insostenibile si può sfasciare tutto oppure mettersi a ridere. Forse allora questo bisogno di sbeffeggiare il campo editoriale – presentazioni, festival, editori – deriva dal fatto che la situazione si è fatta grave (ma non seria, aggiungerebbe Flaiano, uno dei sicuri numi tutelari di queste opere picaresche), che il meccanismo culturale è implacabile e settato su una prevedibile medietà che fa spavento.

Proprio la medietà ad esempio è diventata la cifra dei nostri premi, e qui converrà tirare in ballo Gianluigi Simonetti da poco in libreria con Caccia allo Strega per Nottetempo, indagine molto lucida e franca sul più importante riconoscimento letterario italiano. Più che una chiusa, si potrebbe parlare di una tumulazione: «Più in generale, si afferma (anche coi premi letterari) l’esigenza di una prosa narrativa al tempo stesso commerciale e impegnata, capace di servire insieme Dio e Mammona: quel padrone esterno che è l’industria culturale e quell’altro, interno e ben più subdolo, che si chiama falsa coscienza. Una scrittura aperta sia alle nuove regole dell’intrattenimento sia al fascino delle “storie vere”, desiderosa di comunicare, convincere e influire, molto più di scavare e durare. Facendo senz’altro a meno della vecchia missione demistificatrice del novel: ciò che permetterebbe al lettore di scoprire quel che solo il romanzo può scoprire». 

© Riproduzione riservata