Assegnato ieri nella consueta cornice del Ninfeo di Villa Giulia a Roma, il premio Strega 2023 va a Ada d’Adamo, con Come d’aria, pubblicato da Elliott: si tratta di una vittoria per certi versi inattesa – la favorita alla vigilia, staccata alla fine di quindici voti, era Rosella Postorino, con Mi limitavo ad amare te, edito da Feltrinelli. Ma più in generale è stata un’edizione storica, per diverse ragioni.

Storica innanzitutto perché si afferma una donna, circostanza che allo Strega si verifica con una certa parsimonia; ma storica anche perché quest’anno, per la prima volta, le scrittrici in finale erano ben quattro. Storica, poi, perché vince una casa editrice certo radicata a Roma – dove lo Strega si decide – ma effettivamente piccola, dopo il ballon d’essai di Guanda, che era piccola fino a un certo punto (e che nel 2018 vinse con La ragazza con la Leica di Helena Janeczek: fino a ieri l’ultima scrittrice ad aver vinto il premio).

Sono aspetti, questi, sorprendenti solo in apparenza; perché la vittoria femminile, in effetti ampiamente preventivata, corrisponde a una tendenza di tutta l’editoria di narrativa occidentale a valorizzare, oggi, le narratrici (per ragioni politiche, culturali e di marketing); e perché la ricerca di inclusività e l’erosione del gender gap bene si mescolano allo sforzo di facilitare l’accesso dell’editoria media e piccola, in particolare a quel premio – lo Strega – da sempre accusato di escluderla a beneficio di pochi grandi gruppi. Quest’anno poi Feltrinelli – scegliendo di promuovere Mi limitavo ad amare te in modo straordinariamente intenso – ha finito col recitare agli occhi di molti il ruolo di un tentacolare Golia opposto ai deboli mezzi di un vivacissimo Davide: e si sa in questi casi a chi va la simpatia del pubblico che assiste allo scontro.

La realtà è molto più ambigua e complicata, naturalmente – ma in questo contesto comunicativo premiare un’autrice edita da un piccolo marchio significava per lo Strega sottrarsi in un colpo solo a due accuse che tradizionalmente gli sono state mosse: misoginia e asservimento alla grande editoria.

Alla fine, quindi, questa edizione credo vada considerata storica soprattutto per una terza e meno evidente ragione: per la prima volta, se non erro, a imporsi è una figura che non ha alle spalle una “carriera” da scrittore, né in generale una esperienza o professionalità letteraria significativa. Come d’Aria è infatti la prima prova narrativa di una studiosa, Ada d’Adamo, che si era occupata di danza e teatro prima di ammalarsi gravemente e morire – un mese dopo la candidatura del suo libro allo Strega.

Il solo parziale precedente è forse quello di Mariateresa Di Lascia, ed è in effetti un doppio precedente: anche Di Lascia vinse uno Strega postumo (nel 1995, con Passaggio in ombra); anche lei – attivista politica – aveva scritto e pubblicato poco o nulla prima di quella esperienza; anche nel suo caso il contesto ha aiutato il testo – ma anche nel suo caso il contesto non spiega tutto, come specificherò in conclusione.

Metamorfosi inclusiva

Prima, vale la pena di farsi una domanda. Se la valorizzazione delle scrittrici e l’allargamento alla piccola e media editoria sono fenomeni coerenti con la metamorfosi inclusiva che lo Strega porta avanti da qualche tempo – non senza riguardo alla valorizzazione dell’immagine e quindi dell’appeal commerciale del brand – cosa dobbiamo pensare della repentina promozione in serie A di una scrittrice-non-scrittrice?

A maggior ragione poi in un’edizione, quella di quest’anno, in cui la “dilettante” ed esordiente Ada d’Adamo competeva con quattro superprofessionisti dell’editoria – due poligrafe di lungo corso (Romana Petri e Maria Grazia Calandrone) e addirittura due scrittori-editor (Rosella Postorino e Andrea Canobbio, entrambi dipendenti di Einaudi)? Anche questa “sorpresa” si può in realtà considerare parte di una strategia – e di una trasformazione della nostra società letteraria?

Certamente sull’esito finale il contesto ha inciso molto, sull’onda dell’emozione suscitata dalla morte prematura e tragica di Ada d’Adamo e dal contenuto stesso del suo terribile romanzo (la malattia fatale che ha colpito l’autrice, e il rapporto con una figlia gravemente disabile vista attraverso la lente di questa malattia).

Ma andrà ricordato che i contenuti di altri libri in cinquina non erano potenzialmente meno lacrimevoli e toccanti, né meno indenni dal demone delle “storie vere”: basti pensare alla madre suicida e all’orfanezza di Calandrone, al padre depresso di Canobbio, e soprattutto ai bambini bosniaci orfani di guerra di Postorino, che competeva per vincere. E d’altra parte, erano scritti e raccontati tanto meglio, i romanzi dei professionisti?

Opporre una “dilettante” senza talento letterario ma con una storia vera e patetica da offrire al mondo a “professionisti” attenti allo stile e all’invenzione e disinteressati al contesto è forse invitante ma irrealistico, se non distorsivo: i primi due romanzi classificati, in particolare, hanno in comune un centro fortemente patetico, un rinvio alle “storie vere” e una scarsa attenzione alla forma letteraria tradizionale.

Quello che effettivamente li distingue non è tanto il rapporto al mestiere, alla lingua o all’invenzione, ma una diversa credibilità, una diversa alchimia tra pathos, stile ed esperienza.

Ed è su questo piano che Come d’aria credo abbia giocato le sue carte decisive.

Livelli inconsci

Penso infatti non abbia avuto torto Alfredo Savi, vedovo di Ada d’Adamo, sul palco del Ninfeo, quando ha parlato di un premio «inaspettato e meritato»: Come d’aria è un libro ruvido ma onesto, tragico ma non sentimentale, imperfetto nella costruzione ma ricco di sorprese e di livelli, anche inconsci. Ha potuto o potrà essere strumentalizzato dalla comunicazione e dalla promozione letteraria - ma è nel fondo un libro sincero e a tratti potente, interessante nel suo flusso più che sulla singola pagina, capace di trovare una sua precisa identità stilistica nella rabbia e soprattutto nel pudore: e in questo ricorda Nati due volte, di Giuseppe Pontiggia, capolavoro della narrativa italiana degli anni Zero che ha saputo parlare di disabilità, di famiglia e di dolore senza nessuna concessione al pietismo («È l'eccesso a tradire la menzogna, la verità non ama i superlativi»).

Mentre altri finalisti hanno puntato sull’enfasi narrativa e culturale, sul “pieno” emotivo, sul coraggio e un po’ sull’idealismo, d’Adamo ha scelto di sottolineare il vuoto di senso, la distanza dalle cose, l’assenza di parole, la voglia di mollare: e così facendo ha svolto il vecchio eterno lavoro del romanzo, che è smascheramento dell’inautentico, resa dei conti con gli altri e con se stessi – insomma incontro con l’«aspra verità» di cui scriveva Stendhal.

Se La traversata notturna di Andrea Canobbio gli era forse superiore per qualità artigianale e progetto complessivo, Come d’aria non può e non deve essere ridotto a un referto aleatorio e carico di pathos (in una edizione del premio sovraccarica di traumi); quello che ha vinto non è solo un premio alla memoria. Certo, Come d’aria è anche il segno di un nostro crescente desiderio di prima persona (mentre le nostre identità sembrano svuotarsi quanto più si estroflettono, perdere di senso quanto più compulsivamente si manifestano). Ed è anche la testimonianza di una testualità che sempre più ha voglia o bisogno di appoggiarsi ad un contesto, di romanzi-non-romanzi che sempre più includono ed esibiscono il loro stesso autore, mentre limano via la tradizione letteraria.

Ma Come d’aria non è solo un sintomo; al di là dei nostri possibili pregiudizi, è anche un libro scarno ma forte, che funziona.

Resterà al tempo stesso come esempio del nostro attuale, paradossale bisogno di una “letteratura senza letteratura”, e insieme come opera riuscita, nata da una lucidità, da un’onestà e da una disperazione estreme.

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