Lo ricordava Beppe Cottafavi domenica scorsa su queste stesse pagine: giovedì prossimo, a Roma, si decide il vincitore dello Strega di quest’anno; o meglio la vincitrice, perché per la prima volta quattro finalisti su cinque sono donne, e donne i due favoriti: Rosella Postorino con Mi limitavo ad amare te e Ada d’Adamo con Come d’aria.

Un confronto col Campiello – l’altro grande premio di narrativa che ha già stabilito la sua cinquina – conferma che quest’anno le scrittrici vanno forte: le finaliste sono tre su cinque. Ma a uno sguardo meno superficiale emerge un’altra costante, più strutturale e interessante: su dieci opere finaliste addirittura nove si presentano ispirate a “storie vere”. Tre biografie di scrittori dalla vita movimentata (una romanzata, Rubare la notte di Romana Petri, su Antoine de Saint-Exupéry; una documentata e un po’ agiografica, La Sibilla di Silvia Ballestra, dedicata a Joyce Lussu; una su Ennio Flaiano in forma di rievocazione e memoir, Diario di un’estate indiana, di Tommaso Pincio ). Poi un racconto di viaggio che è anche riflessione sul mito (Tuena, In cerca di Pan); un saggio narrativo che espone documenti d’archivio e fotografie (La resistenza delle donne, di Benedetta Tobagi).

Ancora, un romanzo che indaga la depressione di un individuo reale – il padre dell’autore – mescolandola a un’esplorazione urbana (Canobbio, La traversata notturna); l’inchiesta sulla propria madre morta suicida, con sopralluoghi, ricostruzioni e testimonianze (Dove non mi hai portata, di Maria Grazia Calandrone). Infine un’autopatografia (racconto in prima persona della propria malattia: Come d’aria); un romanzo ambientato durante la guerra dei Balcani, ispirato a storie vere di giovanissimi profughi orfani (Mi limitavo ad amare te). Solo Marta Cai, con Centomilioni, non spinge sul pedale della ‘scrittura ibrida’ e accetta di inventare e basta.

La cinquina del Campiello è decisa da un numero ristretto di letterati (studiosi e scrittori), quella dello Strega da alcune centinaia di giurati, mix tra “addetti ai lavori” editoriali, lettori forti e società civile. Giurie molto diverse, opere diverse, orientamenti analoghi. Se è vero che i grandi premi sono a tutti gli effetti istituzioni culturali, è lecito concludere che il “sistema” della letteratura sta assorbendo due forme di pressione che pulsano da un po’ di tempo nella nostra società.

La carica delle scrittrici

La prima pressione è quella a promuovere nella serie A della letteratura un numero crescente di scrittrici. La novità colpisce soprattutto per lo Strega, che pur diretto per quasi tutta la sua storia da due donne – prima Maria Bellonci, poi Anna Maria Rimoaldi – di scrittrici nel Novecento ne ha premiate poche. Ma al di là dei simboli, contano i fatti, come i premi li riflettono: e il fatto è che anche l’editoria di narrativa italiana, come da tempo accade all’estero, si mostra oggi concentrata a cercare, reclutare e sostenere un certo profilo di scrittrice, depositaria privilegiata di una gamma di temi di tendenza.

Anche in questo campo le ragioni democratiche dell’inclusività incontrano un clima ideologico, una moda culturale e insieme una ragione commerciale: posto che la grande maggioranza dei lettori di fiction letteraria in Italia (e non solo in Italia) è costituita da donne, è soprattutto alle scrittrici che l’industria culturale si rivolge per proporre figure in cui per questo pubblico sia facile e gradevole identificarsi.

Le storie vere

La seconda pressione non è priva di rapporti con la prima (se i valori sono quelli del riconoscimento immediato e della facilità di identificazione): riguarda l’esibizione della “storia vera” accanto a o al posto di un certo tasso d’invenzione letteraria. La quale, nel clima dei premi, è oggi ben accetta se si collega a un elemento di veridicità (vedi i tre casi di “vite d’artista” menzionati prima); mentre viene esclusa se si presenta come metaletteratura senza residui, come nel caso di due romanzi di valore che non ce l’hanno fatta a raggiungere la finale – Ferrovie del Messico, di Marco Griffi, che rilegge creativamente Detective Selvaggi di Bolaño; e Il continente bianco, di Andrea Tarabbia, che riscrive ai giorni nostri lo splendido Odore del sangue di Parise.

Chi del resto in questi giorni vada al cinema a vedere Emily, il film di Frances O’Connor dedicato all’autrice di Cime tempestose – che è pur sempre uno dei romanzi più potenti di tutti i tempi – potrà leggere sul poster del film che «la più bella storia di Emily Brontë è la sua vita». L’attuale primato del vero sul finto arriva a questi paradossi (e li sfrutta pubblicitariamente): se davvero ci stiamo abituando a pensare che una storia vale di più se è veramente accaduta, è normale che l’industria culturale punti a venderci un numero crescente di “storie vere”, raccontate da scrittori che tendono a farsi, più che inventori, testimoni, e che per questo usano ormai prevalentemente la prima persona.

Magari non lo sappiamo, ma privilegiando il vero sul finto rovesciamo una gerarchia millenaria, fondativa anche della sensibilità artistica occidentale. Basti ricordare che la Poetica di Aristotele – il trattato che ha fissato per secoli alcune delle nostre più importanti categorie estetiche – attribuiva alle “storie inventate” allo scopo di imitare le azioni umane il più alto prestigio culturale e artistico.

Per Aristotele la tragedia, basata sull’invenzione, è molto meglio della storiografia, che per statuto non può staccarsi troppo dalle “storie vere”. Certo, la grande letteratura rinvia sempre alla realtà, per imitarla; ma l’imitazione più profonda si esercita sul campo del verosimile, non del vero. L’arte, e quindi anche la letteratura - compresa quella apparentemente più realistica - è quindi sempre finzione, perché sempre plasma, reinventa e ricrea la realtà a cui rinvia.

Romanzi e realtà 

Per la verità proprio la nascita e l’ascesa del romanzo moderno, tra Sette e Ottocento, aveva molto complicato i rapporti tra “storie vere” e “inventate”. Molti romanzi importanti di quel periodo – Pamela di Richardson, o la Nouvelle Héloïse di Rousseau, per non parlare del Werther di Goethe e dell’Ortis di Foscolo – si esprimono attraverso le finzioni del diario o delle lettere, perché così è possibile che i lettori pensino di avere a che fare con veri diari, con epistolari autentici.

Defoe lascia credere che il suo Robinson Crusoe documenti le vere vicissitudini di un naufrago, e che la storia di Moll Flanders sia quella di una prostituta reale: «Oggi il mondo è così invaso da romanzi e racconti d’avventure», scrive l’autore nella Prefazione, «che è difficile a una storia di cronaca esser presa per vera». In sostanza, il romanzo moderno si prende la ribalta rinnegandosi come opera di finzione, ovvero affermando di non essere un romanzo.

E tuttavia, la nostra attuale confusione è più frutto di una complicazione successiva, l’avvento dei mass media: se le storie raccontate dal romanzo erano in larga parte “inventate” – anche quando si travestivano da “storie vere” – quelle del giornalismo e dell’infotainment sono (o sembrano?) accadute davvero.

Nasce il New Journalism, e il non-fiction novel: rielaborazioni letterarie di materiali autentici, raccolti con metodi giornalistici e filtrati da una esperienza personale. Molto prima degli attuali ingorghi di romanzi-verità, il secondo Novecento italiano aveva già prodotto ottime commistioni tra letteratura e giornalismo: basti pensare a scrittori come Primo e Carlo Levi, Parise, Bianciardi, Sciascia – tutti capaci di scrivere non solo grande letteratura d’invenzione, ma anche eccellenti libri di non-fiction.

Oggi che la narrativa letteraria si mostra a volte semplicisticamente attratta dall’energia delle “storie vere”, forse è il caso di recuperare un po’ della saggezza di Aristotele, quando ci ricorda che in arte – per fortuna – non è mai vero niente; o di Verga (recentemente bistrattato da Susanna Tamaro) quando ammoniva che la storia dei Malavoglia – vertice del nostro verismo – non riguarda «la realtà com’è stata», ma «come avrebbe dovuto essere».

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