Secondo Aristotele esistono tre grandi generi letterari: la scrittura drammatica, la scrittura lirica, la scrittura epica. Nella drammatica, l’autore si esprime tramite personaggi; nella lirica, tramite il proprio io; nell’epica, raccontando fatti altrui. In altre parole: scrivere in prima persona e scrivere in terza non sono, per Aristotele, due opzioni più o meno equivalenti in mano al narratore, ma due generi completamente differenti: due diversi e alternativi approcci alla scrittura. La differenza fondamentale è che il poeta epico – a differenza del lirico, che descrive esperienze – narra eventi che non ha vissuto. Per dirla con Carrère: racconta vite che non sono la sua.

Un po’ di secoli dopo Aristotele e dopo la scomparsa dell’epica, oggi possiamo dire con serenità che quella differenza sostanziale tra prima e in terza persona non esiste più, o perlomeno non è percepita come tale: è una scelta narrativa, una fra le tante, che l’autore spesso imbocca istintivamente e che il lettore spesso non rileva e non discrimina. Il tempo in cui il romanzo era, nove volte su dieci, una variazione più della cronaca che della testimonianza, è finito da parecchio.

Se il mai abbastanza rimpianto romanzo ottocentesco ha conosciuto l’incontrastato dominio della terza persona – dal narratore onnisciente di Manzoni a quello onnipresente di Balzac sino a quello onnicomprensivo di Dostoevskij – la nostra epoca è senza dubbio sotto l’egida della prima. Si scrive in prima persona spesso anche quando si scrive in terza: il punto di vista è singolo, personale, psicologico. È una differenza che significa ancora qualcosa?

Punti di vista

Chiunque abbia insegnato o frequentato una scuola di scrittura, sa che la principale differenza narratologica tra prima e terza persona consiste nella gestione delle informazioni. Il narratore terzo può, potenzialmente, sapere tutto dei suoi personaggi, seguire tutte le vicende di tutti, spostarsi da una storyline all’altra meglio di qualunque montaggio cinematografico, essere ovunque contemporaneamente: è un suo diritto statutario, nessuno gliene chiederà conto. Sappiamo che può farlo. Lo accettiamo volentieri, ci facciamo guidare.

Il narratore in prima persona, viceversa, esprime il punto di vista di un singolo individuo. Come ogni singolo individuo vissuto sulla terra, non può sapere tutto, neanche di sé stesso; come ogni singolo individuo vissuto sulla terra sa qualcosa, e quel qualcosa spesso lo riguarda direttamente. Deve riguardarlo, del resto: altrimenti come potrebbe saperlo? Deve legittimare tutto quello che sa, di se stesso e degli altri. Come in una conversazione, non può correre il rischio di essere implausibile. Anche quando non parla di sé ma di Jean-Claud Romand, Emmanuel Carrère deve raccontarne la frequentazione e le sue premesse, legittimarne la conoscenza, trasformare la sua manovra d’avvicinamento alla vita e alla psicologia di quell’uomo in una scrupolosa strategia narrativa.

Quando Dostoevskij nei Demoni scriveva il personaggio di Pëtr Verchovenskij ispirandosi al contemporaneo Sergej Nečaev, non aveva questo problema: il suo rapporto con la verità individuale era infinitamente meno vincolante. Si sa, l’informazione è potere, e il narratore in terza persona è indubbiamente più potente del narratore in prima: può sapere più cose, e con meno fatica. È un lusso ottocentesco, a cui sempre più narratori contemporanei scelgono di rinunciare.

Una scelta di campo

Il narratore di oggi, quando sceglie più o meno istintivamente la prima persona, fa indubbiamente una scelta di campo. Sceglie di parlare solo di ciò che sa. Memore del celebre aforisma di Wittgenstein – «di ciò di cui non si può parlare si deve tacere» –decide di parlare solo di ciò sente di aver diritto e autorevolezza di raccontare. La collocazione del punto di vista in altre vite e in vicende lontane dal suo baricentro gli appare forzato e lontano. Quello che a Tolstoj doveva sembrare uno straordinario privilegio – sapere tutto, e tutto poter raccontare, dai movimenti più intimi della mente di Napoleone al più segreto crocchiare di una foglia sul campo di battaglia – oggi appare spesso come un’impostura o uno spreco: una responsabilità narrativa innaturale.

La letteratura romanzesca sembra dire: non si può parlare per altri, neanche se questi “altri” sono esseri immaginari. È una libertà che viene sempre più delegata agli autori di thriller e sci-fi: generi che, forse non per caso, vendono oggi molto più dei romanzi “realistici”, e la cosa, al di fuori di ogni snobismo, dovrebbe forse generare qualche riflessione. Ma che rischia di far apparire il “romanzo realistico” come un genere più arido, più cauto. Meno vitale, meno ricco, meno energetico. Più “privato”.

Psicoterapia narrativa

C’è chi ha scritto che il dilagare dell’uso della prima persona nella narrativa sia dovuto all’uso dei social network. Non sono d’accordo. Se proprio devo individuare un fattore che, come una collisione tra due falde, ha cominciato a mescolare le acque, forse è piuttosto la diffusione della psicoterapia di massa. A partire da Italo Svevo, il dialogo con l’analista è diventato un modello narrativo via via crescente, fino a diventare oggi il paradigma implicito e dominante della narrativa “borghese”.

E a determinare anche una certa idea di letteratura, con il suo implicito corollario di valori: il dolore come strada privilegiata per l’accesso alla verità; la verbalizzazione come processo sempre e comunque positivo; la condivisione come affermazione del superamento dei traumi; la passione per l’infanzia come luogo fondativo.

Sia chiaro: non c’è niente di male nel trattare la pagina narrativa come fosse un terapista lacaniano, di quelli che non parlano neanche se gli spari e interloquiscono solo con mugolii di diversi gradi d’intensità. C’è, indubbiamente, qualcosa di liberante nello scrivere un io, e lasciarsi andare al piacere del flusso, dell’abitazione di un ego, che si tratti del proprio o di uno immaginario.

Ma ci sono dei rischi. Il rischio, ad esempio, che la letteratura venga sempre più intesa una nobile arte della memoria. Che si finisca –  proprio come in analisi – con l’accontentare il terapeuta, che si esalta appena il discorso tocca la mamma e il papà. E quindi di indugiare, come in un riflesso condizionato, un po’ tutti nella stessa antropologia che vede le radici delle azioni degli adulti nelle loro storie familiari e nelle loro archeologie infantili. «Voi scrittori italiani», mi è stato detto durante un convegno, «parlate sempre e solo di famiglie». La cinquina del Premio Strega è lì a dimostrare che continuiamo a considerare la figura del bambino come il centro degli eventi.

Dolente didattica

L’altro rischio è che la narrativa diventi l’espletazione di una funzione meditativa e ultimamente istruttiva. Una manifestazione didattica e spesso dolente, che nel racconto cerca sempre la parabola: dal male al bene, dal segreto al pubblico, dallo scuro al chiaro, nello sforzo – legittimo, ma pericolosamente asfissiante se diventa ossessivo – di usare la letteratura come solo come mezzo di ricomposizione degli eventi, riconciliazione tra realtà e linguaggio, perdendone però la potenzialità dinamitarda, incendiaria, vitalistica e sprecona. Lì dove, come scriveva proprio un grande “primapersonista”, Karl Ove Knausgård: «Lo scrivere riguarda più il distruggere che il creare».

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