Ad oggi, con la guerra a Gaza, la coltivazione delle erbe che servono a preparare la miscela è impossibile. La sua resistenza nell’omonimo ristorante bresciano è simbolica e identitaria: da cittadino italiano con radici in Palestina, Ashkar ha piantato nel nord Italia un seme di tradizione e attivismo
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani, sullo sfogliatore online e in edicola
Nell’angolo in alto a destra della tovaglietta-menu del ristorante palestinese Dukka ci sono quattro QR Code. Ciascuno apre una pagina su Instagram: Middle East Monitor, Middle East Eye, Eye on Palestine e Jewish Voice for Peace, che attraverso informazione e attivismo si oppongono al massacro dei civili nella Striscia di Gaza. Ma Dukka, il ristorante nel cuore di Brescia, è molto altro. A gestirlo c’è il suo fondatore, Iyas Ashkar, che si è laureato in medicina in Italia ed è originario di Baqa, una città a maggioranza araba palestinese dentro lo stato di Israele e tagliata in due dal muro di demarcazione che separa lo stato ebraico dal territorio palestinese occupato della Cisgiordania.
«Dukka è un ristorante ibrido, come me. È un ambiente italiano che serve una cucina mediorientale. Ma noi facciamo cene di raccolta fondi per cause molto diverse, non solo per la Palestina». Ashkar, che è anche consigliere comunale della città, racconta il ristorante come uno spazio di accoglienza, il cui motore principale è la dimensione sociale, rivolta alla comunità tutta.
Nel centro nord della Palestina storica, da dove proviene Ashkar, Dukka è il nome che i contadini danno alla miscela di erbe aromatiche con cui si condiscono insalate, bruschette, formaggi. Altrove, è nota come za’atar, il cui ingrediente centrale è il timo selvatico. «È una delle erbe più significative e diffuse della Palestina: durante la stagione si usava raccoglierlo, portarlo a casa, essiccarlo e poi miscelarlo. Si aggiungeva un po’ di olio, un po’ di sale e del sesamo tostato ed era pronto a essere il condimento di tutto l’anno». Ashkar è serio quando ne parla: «Oggi questa pratica è quasi impossibile perché Israele vieta ai palestinesi di coltivare lo za’atar. Ha trasformato tutte le zone dove cresce in riserve naturali o aree di interesse militare, inavvicinabili per i palestinesi». Da qui, in senso simbolico e identitario, il nome Dukka.
Davanti ad Ashkar, sul tavolo, c’è un preparato fresco (e un po’ piccante) da bere durante i pasti: menta e limone, a cui lui aggiunge lo zenzero. Uno dei suoi piatti preferiti sono i fatteh perché sono facili da preparare e sono «giocosi». Dall’arabo, richiamano l’atto di spezzare il pane dentro il piatto: un’usanza antica. Siccome i piatti erano molto poveri, fatti di verdure e legumi, i contadini li arricchivano con del pane secco. «Poi il piatto si è evoluto nel tempo: oggi ad esempio si usano dei crostini siriani fritti, ma rimangono cibi molto genuini e si presentano in una ciotola di terracotta. All’interno gli ingredienti variano: possono essere ceci, fave e anche la carne, messi in questa salsa di yogurt con i crostini, le mandorle tostate e i pinoli».
Secondo Ashkar l’idea di avere molti ingredienti con temperature diverse è divertente e in più i fatteh si possono comporre con il cibo rimasto, senza sprecarlo. I cibi della cultura palestinese da anni stanno guadagnando più risonanza, anche grazie al fatto che Google, nel suo motore di ricerca, ha cominciato nel 2024 a riconoscerli come categoria autonoma. Prima, infatti, erano etichettati come “israeliani”: un ennesimo atto di cancellazione che ha portato diversi ristoratori nel mondo a denunciare questa pratica e a pretendere il riconoscimento.
Dall’inizio dell’ultimo conflitto a Gaza poi le persone hanno cominciato a cercare di avvicinarsi anche alla cultura palestinese, e con essa al cibo. Ma allo stesso tempo, in modo inevitabile si è guardato al mondo palestinese solo in termini di guerra e distruzione. Iyas Ashkar oggi, però, è un cittadino italiano: le sue radici sono in Palestina, ma la sua vita è nel nord Italia, dove si impegna con costanza in iniziative sociali e nella politica locale.
Il luogo in cui ha scelto di vivere è l’Italia e qui ha costruito un pezzo di Palestina, personale e collettivo. A Baqa, che adesso è divisa tra est e ovest a causa del muro israeliano e dove c’è la sua famiglia, non è mai tornato dopo il 7 ottobre: «Visto il mio attivismo, avevo paura che se fossi andato, poi non sarei più riuscito a tornare».
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