Partiamo dall’hummus, una guerra nella guerra.

Da sempre considerato un cibo arabo, Israele da anni ne sottolinea l’origine anche ebrea, di parte mizrahi, cioè di quegli ebrei stabilitisi in Medio Oriente ben prima della nascita dello Stato di Israele, popoli che vivevano in Iraq, Iran, Libano, etc. e che quindi mangiavano cibo arabo come ceci, lenticchie, spezie, etc.

E anche hummus.

Per sottolineare l’origine israeliana dell’hummus, però, ci voleva qualcosa di più di una rivendicazione storica, quasi un colpo di teatro. L’8 gennaio 2010, nel villaggio di Abu Ghosh, gli israeliani decisero di creare il più grande piatto di hummus mai realizzato al mondo ed entrare così nel Guinness dei primati.

Lo fecero, e pesava quattro tonnellate.

Gara patriottica

Fu qualcosa di più di un tentativo di stabilire un nuovo record. Migliaia di persone giunsero da ogni parte di Israele per assistere all’evento e una volta registrato ufficialmente il primato, lo speaker disse al pubblico: «Superare questo record è un orgoglio nazionale; i libanesi dicono che l’hummus è una loro invenzione, ma l’hummus è nostro, degli israeliani». Da quel momento l’origine dell’hummus tra i media e l’opinione pubblica fu un argomento molto meno certo che nel passato.

È un esempio lampante di quanto il cibo possa giocare un ruolo fondamentale nell’appropriazione culturale e, in questo caso, nel nazionalismo, l’ideologia che vuole una nazione superiore a un’altra, anche nel nome dell’hummus. Per la cronaca, il Libano si riprese il primato dopo poco, con un hummus di 11 tonnellate. E quando Israele propose un piatto da 15 tonnellate, per mano di un regista di cinema, la società che regola i Guinness mise fine alla guerra dell’hummus.

Cibo e pietre

Il fatto è che, ancora di più delle parole, i cibi possono essere pietre, armi che due popoli in guerra tra decenni usano per colpirsi culturalmente a vicenda. La nascita di una cucina nazionale è sempre una costruzione sociale ed è sempre legata alla maniera in cui ogni nazione nasce e si autodefinisce attraverso i concetti di “noi” e “loro”, di alleati e nemici e attraverso il rapporto con le popolazioni vicine. Da questo insieme di fenomeni scaturiscono infatti legittimazioni e delegittimazioni, assimilazioni e spesso anche appropriazioni arbitrarie.

Tutto semplice, quando i popoli sono in pace, in fondo si tratta di scambi culturali. Ma quando c’è una guerra di mezzo è molto facile che uno scambio diventi uno scippo, un furto. Come appunto denunciano molti palestinesi, che accusano gli israeliani di aver costruito la loro cucina su quella araba, e di aver messo l’etichetta di “israeliano” su piatti che da millenni appartengono alla tradizione araba.

Quando lo stato d’Israele venne creato nel 1948, dovette fare i conti con una estrema eterogeneità del suo popolo: gli israeliani erano per la grande maggioranza ebrei che arrivavano da ogni angolo del mondo e che basavano la loro vita su tradizioni culturali, cibo compreso, molto diverse l’una dalle altre. Qualcosa di quelle culture gastronomiche arrivò con loro nel nuovo stato.

Ma il grosso del cibo israeliano, fin dall’inizio, fu costituito dai cibi del luogo, quel tesoro inesauribile che è il cibo del medio oriente, in cui gran parte di quello che mangiamo è nato. Gli israeliani rispondono che in realtà si trattava di un cibo sia ebreo che arabo. Infatti, in medio oriente c’era innanzitutto la cucina dei popoli arabi di quel territorio, Palestina compresa; e poi la cucina degli ebrei mizrahi, di cui si è detto. Ebrei arabi che in quanto arabi mangiavano il cibo del medio oriente, e in quanto ebrei lo portarono come loro bagaglio culturale quando contribuirono alla nascita dello stato di Israele.

Ma entrando più nel dettaglio, come è nato il cibo israeliano? Come succede ovunque, una parte del cibo israeliano è nata dai media (libri di ricette, programmi tv, riviste, etc); un’altra parte dalle etichette di “cibo israeliano” che sono state date ad alcuni prodotti che venivano coltivati nel territorio, per esempio i pompelmi, più che un cibo identitario in sé, un prodotto che celebrava l’ingegnosità del popolo israeliano di coltivare frutta anche in un territorio semi-desertico; un’altra parte di questa idea di “cibo israeliano” è nata dai festival e le rassegne anche estere in cui il cibo israeliano è rappresentato da alcuni piatti e non da altri. E ancora da varie manifestazioni culturali.

Ma c’è anche una grossa parte di questa costruzione che è spontanea, che nasce dalla gente comune, perché il cibo viaggia e si mescola più velocemente di religioni e ideologie. Gli ebrei mangiano cibo arabo, i palestinesi hanno gli stessi piatti dei mizrahi.

E così la cucina israeliana che conosciamo oggi, soprattutto all’estero, è un misto di quella mizrahi, di quella portata dagli ebrei che vivevano altrove (gli ashkenaziti europei e poi americani, che acquisteranno grande peso politico emarginando i mizrahi, di origine araba) e di quella arabo-palestinese.

È successo ovunque e non c’è da scandalizzarsi. Se ancora ci chiediamo quanto italiano o americano sia il pomodoro, possiamo anche chiederci se l’hummus o il falafel debbano essere considerati palestinesi o israeliani.

Quello che i palestinesi contestano è che gli israeliani non riconoscono le origini arabe e palestinesi di quello che loro considerano il loro cibo. Inoltre, dicono, a molti cibi arabi in Israele è stato cambiato il nome, in modo da cancellare ogni traccia di origine araba. Lo chef palestinese Habib Daoud ripete spesso che il cibo palestinese non ha mai ricevuto un pieno riconoscimento per il ruolo avuto nella costruzione di quello israeliano, anche a livello di operatori del settore.

Passare oltre

La questione non è certo nata oggi, sono decenni che i palestinesi denunciano questo scippo culturale, ci sono anche state denunce, cause giudiziarie e prese di posizione decise come quella di Anthony Bourdain. Alcuni storici del cibo parlano di gastro-colonialismo. E l’uscita di un documentario israeliano, Falafelism, non ha fatto che peggiorare le cose.

La risposta degli israeliani è sempre quella: il loro cibo è in realtà cibo ebreo del nord Africa e del medio oriente, quello degli ebrei mizrahi, che avevano già quei cibi nella loro cultura, per esempio gli ingredienti e i piatti che arrivavano da Aleppo o l’Egitto. Il più noto chef israeliano, Yotam Ottolenghi, ha una posizione più morbida, riconoscendo a questi cibi contesi un’origine sia palestinese che ebraico-nordafricana.

Adesso da entrambe le parti si fa sempre più forte la richiesta di decolonizzare le due cucine. Alcuni israeliani auspicano la “decolonizzazione” del loro cibo, invitato a liberarsi degli elementi arabi e occidentalizzarsi una volta per tutte, un fenomeno raccontato in molti articoli il politologo Ronald Ranta.

Altri chiedono invece la decolonizzazione della cucina palestinese, intanto rivendicando il suo ruolo. La ricercatrice Fé Versteeg aggiunge che Israele ha mostrato di voler cancellare la cultura del cibo palestinese anche attraverso lo sradicamento di moltissimi alberi di ulivo nei territori occupati e la loro sostituzione con i pini, alberi non certo tipici di quelle zone. Versteeg accusa Israele di voler modificare così non solo la dieta, ma anche il paesaggio di quelle aree contese.

La disputa non si fermerà finché non si fermerà la guerra, perché la disputa è una parte della guerra e dell’odio tra questi due popoli. E prova quanto il cibo, a volte, possa essere usato come un’arma culturale all’interno di un conflitto militare. Un’arma meno letale delle bombe sul momento, ma estremamente insidiosa: attraverso i decenni, infatti, il cibo in medio oriente ha allontanato e separato, almeno quanto in altre parti del mondo che sono in pace ha avvicinato e accomunato.

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