Nell’ultima parte di Guerra e pace il conte Tolstoj, terminando di raccontare la sua storia, medita a lungo sulla storia, e mette in guardia il lettore dal pensare che i resoconti degli avvenimenti si possano ridurre ai pettegolezzi sui protagonisti, per quanto piacevoli e interessanti. Se dietro all’imperatore Napoleone e allo zar Alessandro non ci fossero stati gli eserciti e le popolazioni, l’epica guerra si sarebbe ridotta a un banale duello. Ma, soprattutto, se nelle azioni degli individui e delle masse lo scrittore non fosse riuscito a individuare la spinta delle leggi della storia, il suo racconto non avrebbe potuto elevarsi sopra le miserie della cronaca.

Evidentemente la quasi totalità dei politici, dei giornalisti, dei filosofi e degli psicanalisti (!) che in questi giorni hanno imbrattato la carta stampata e saturato l’etere con i loro pettegolezzi sulla crisi di governo non ha mai letto Tolstoj. O, se l’ha letto, non l’ha capito. O, se l’ha capito, se l’è dimenticato. Dalle loro “analisi”, infatti, sembrerebbe che i 150 anni che ci separano da Guerra e pace siano passati invano: molte delle leggi che regolano i rapporti economici, sociali e politici nelle nazioni sono infatti state scoperte, molti dei loro scopritori sono stati premiati con il premio Nobel, ma nessuna di queste leggi, e nessuno di quegli scopritori, ispira mai le infantili e superficiali spiegazioni degli eventi ammannite dai media.

L’indice di potere

Prendiamo il caso di Renzi, ad esempio. Su di lui sono state proposte analisi caratteriali e psicologiche da strapazzo, e si è gridato all’indecenza di un partitino con un’infima percentuale di voti che pretendeva di imporre a una quasi-maggioranza il proprio volere, dimenticando che una quasi-maggioranza è appunto una non-maggioranza: in politica, come nella fisica atomica, se non si raggiunge la massa critica non c’è detonazione, e solo avvicinarvisi non conta nulla (it’s close, but no cigar).

Per questo, nel 1954, Lloyd Shapley e Martin Shubik hanno proposto un metodo per calcolare l’indice di potere di un partito, basato sul numero di coalizioni in cui quel partito sarebbe determinante per raggiungere la maggioranza assoluta. Ad esempio, se in un parlamento di 100 seggi ci sono un partito a sinistra e uno a destra, con 49 seggi ciascuno, e un terzo partito al centro, con 2 soli seggi, quest’ultimo ha in realtà un potere doppio degli altri due, benché abbia quasi 25 volte meno seggi di loro: infatti, può allearsi a destra o a sinistra, mentre gli altri due partiti possono solo allearsi con lui, se non sono disposti ad allearsi fra loro.

Dunque, è inutile lamentarsi che il piccolo partito di Renzi avesse molto più potere dei grandi partiti di Di Maio e Zingaretti, perché è appunto così che vanno le cose: non solo nei parlamenti, ma anche nelle società per azioni e nei consigli di amministrazione. Che l’indice di potere sia uno strumento cruciale per la comprensione dei meccanismi economici è ben noto a Stoccolma, e ha infatti contribuito a far vincere a Shapley il premio Nobel nel 2018. Che sia utile anche per la comprensione dei meccanismi politici sarebbe ora che lo si imparasse a Roma, dove lo si sapeva ai tempi di Spadolini, che divenne presidente del Consiglio pur essendo segretario di un partito repubblicano che valeva quanto Italia viva, in termini di voti e di seggi, ma lo si è evidentemente dimenticato oggi.

La legge di Hotelling

Passiamo ora al caso di Salvini, sui quali molti ironizzano perché da un estremo si è precipitosamente spostato verso il centro. Che questa sia però una tendenza universale è una conseguenza della legge di minima differenziazione enunciata nel 1929 dall’economista Harold Hotelling, maestro di molti premi Nobel, da Milton Friedman a Kenneth Arrow. Secondo questa legge, in un mercato i produttori tendono a omologare i propri prodotti, alla faccia del mantra dell’innovazione. E se tutto attorno a noi, dalle auto ai programmi televisivi, tende all’indistinguibilità e alla standardizzazione, perché mai i partiti dovrebbero differenziarsi fra loro?

Naturalmente, la legge di Hotelling è un teorema dimostrato, come si fa in economia matematica, e non un’opinione campata in aria, come si usa nei talk show e nei reality. La dimostrazione nel caso di due gelatai, che vanno a vendere gelati su una spiaggia lunga un chilometro, è la seguente.

Il buon senso vorrebbe che entrambi si posizionassero simmetricamente, a 250 metri dagli estremi e dal centro, così da potersi spartire equamente i bagnanti, mezza spiaggia ciascuno. Ma entrambi tenderanno a spostarsi gradualmente verso il centro, per rubare al concorrente un po’ dei bagnanti della zona intermedia, pur mantenendo quelli del proprio estremo. E a forza di avvicinarsi si ritroveranno alla fine fianco a fianco, contendendosi i bagnanti del centro e alienandosi quelli degli estremi, molti dei quali decideranno di non fare mezzo chilometro per andare a comprare un gelato: cioè, di non andare a votare.

Non si può dunque imputare a un gelataio, sia esso inteso metaforicamente come Salvini, o letteralmente come Di Maio, di essersi spostato al centro della spiaggia politica, visto che la legge di minima differenziazione prevede che lo facciano comunque tutti, se vogliono comandare. In Italia, ad esempio, la prima Repubblica ha quasi sempre avuto governi a conduzione democristiana, con le due uniche eccezioni di Spadolini e Craxi. E persino nei sistemi a partito unico, come l’Unione sovietica, a governare erano i centristi come Stalin, doverosamente situati fra la sinistra di Trotzkij e la destra di Kamenev e Zinoviev.

Il comportamento amministrativo

Non si può neppure imputare a Grillo, Di Maio e i ministri Cinque stelle di aver sistematicamente e clamorosamente tradito i propri ideali sociali e politici, uno dietro l’altro, pur di stare al governo e spartire il potere a destra e a manca: cioè, con la Lega e il Partito democratico, che di ideali non ne hanno più da tempo, se mai ne hanno avuti. Perché nel 1947 Herbert Simon intraprese, nel famoso libro Il comportamento amministrativo, uno studio del processo decisionale nelle organizzazioni, e scoprì un fatto allora sorprendente: che le decisioni prese da chi è delegato a prenderle non dipendono tanto dal suo carattere o dalla sua ideologia, quanto piuttosto dalle caratteristiche del ruolo che egli ricopre. Detto altrimenti, una stessa persona si comporta diversamente in ruoli diversi, e ciò che fa dipende più da cosa deve fare, che da chi è, o da cosa pensa e crede.

Ad esempio, i grillini hanno sbandierato la sceneggiata delle consultazioni in streaming nel 2013, quando ancora erano attivisti impegnati, ma l’hanno ovviamente accantonata nel 2018, 2019 e 2021, dopo essersi trasformati in politici omologati. E, una volta insediatisi sui banchi del governo, hanno ripetutamente fatto il contrario di ciò che proclamavano quand’erano seduti all’opposizione. A parte Di Battista, che essendo rimasto fuori dai giochi, continua a comportarsi da letterale outsider, come si addice appunto alla sua collocazione extraparlamentare.

Le ricerche di Simon sul comportamento amministrativo gli fecero vincere il premio Nobel per l’economia nel 1978, ma nel frattempo lui era andato avanti. E aveva notato che se è il ruolo a determinare le decisioni che devono essere prese, e non chi lo ricopre, allora si può immaginare di eliminare l’intermediario, e automatizzare il ruolo stesso: cioè, affidare il processo decisionale politico ed economico alle macchine, invece che agli uomini. Oggi la cosa può non piacere, ma certo non stupisce: ormai l’intelligenza artificiale sta diventando ubiqua, e spesso viene applicata proprio in processi decisionali, anche delicati, come la diagnosi e la prognosi delle malattie negli ospedali, la compravendita delle azioni in borsa, e la guida aerea e automobilistica.

Ma quando Simon la propose nel 1956, al famoso congresso di Darmouth, l’intelligenza artificiale non esisteva, e nacque proprio in quell’occasione: la proposta di Simon fu una delle tre che vennero avanzate, insieme a quelle di Marvin Minsky e John McCarthy, e tutti e tre ricevettero per le loro ricerche in questo campo il premio Turing per l’informatica, che costituisce un analogo del premio Nobel: Minsky nel 1969, McCarthy nel 1971 e Simon nel 1975.

Se il fine è sopravvivere

Naturalmente, ci vorrà del tempo per arrivare al momento in cui finalmente ci libereremo dei politici per governare, così come ce n’è voluto per sbarazzarci dei ronzini per viaggiare e delle piume d’oca per scrivere. Nel frattempo, dobbiamo accontentarci di quelli che vengono chiamati tecnici, come Ciampi, Monti o Draghi: cioè, di persone che sanno cosa si deve fare in un certo ruolo decisionale, e vengono chiamati a farlo quando i politici dimostrano di non saperlo o non volerlo fare. In termini evoluzionistici, i governi tecnici sono l’anello di congiunzione fra la specie in via di estinzione dei governi politici e quella futuribile dei governi automatizzati. O, se si preferisce, stanno a metà fra la Stupidità Naturale e l’Intelligenza Artificiale.

La metafora biologica non è fuori luogo, perché fu proprio un biologo di nome Ludwig von Bertalanffy a porre nel 1934 le basi matematiche della teoria della crescita degli organismi, che nel tempo venne estesa dalle scienze naturali alle scienze sociali. In particolare, la teoria dei sistemi ha ormai chiarito che le associazioni di ogni genere, compresi i partiti, i governi e le burocrazie più disparate, gradualmente pongono in secondo piano, e spesso semplicemente dimenticano, quali erano gli obiettivi e i fini per cui erano nate, e si concentrano soprattutto e principalmente sulla propria sopravvivenza e la propria preservazione.

Non c’è dunque nulla di strano, nel fatto che i governi e i parlamenti facciano carte false per non essere sfiduciati, dimessi o sciolti: anzi, è perfettamente nell’ordine delle cose. Potrebbero però almeno avere l’onestà di ammettere che lo fanno unicamente per sé stessi e per la propria sopravvivenza politica, invece di cantare stonatamente il mantra degli interessi dei loro sprovveduti elettori e del bene del nostro sfortunato paese.

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