Il male maschio (La Nave di Teseo) di Enrico Dal Buono è un romanzo che disturba nelle sue prime pagine (soprattutto se si esce dai personaggi e si pensa a tante storie vere), disturba quando presenta Andrea Occasi – il protagonista – un anestesista quarantenne che vive chimicamente, grumo di irrisolti e di ansie («L’ansia è la nostra colonna portante. Se davvero io buttassi fuori le energie negative la mia personalità si affloscerebbe sul pavimento come un lenzuolo senza fantasma»), figlio di un padre assente e traditore e di una madre a cui è profondamente legato; ha una compagna, Iaia, che tradisce ripetutamente.

Andrea e Iaia arrivano al punto di non ritorno, come ci arrivano molte coppie, con i difetti di uno mai affrontati davvero dall’altra e con uno di quegli scambi di battute crudeli che si verifica poco prima di un addio in cui le colpe sfocano e le parole tagliano, separano, riscrivono ruoli e finali.

Iaia lascia Andrea e lo fa sprofondare in un cupo smarrimento. Anche il lettore è smarrito e, forse, inizia a voler bene al romanzo proprio per questo motivo, proseguendo la lettura: per la capacità di Dal Buono di insinuare e conservare il dubbio, per l’osmosi di bene e male, per il ritratto spietato e per nulla banale di certi tipi umani, di una certa società, di un determinato modo di essere al mondo, della consapevolezza di essere colpevoli, ma di non fare nulla per dichiararsi tali fino a quando qualcuno o qualcosa non mette alle strette, non punisce.

Andrea sente la mancanza di Iaia quando non è più sua («Adesso la vorrei più di qualsiasi altra donna. Prima era mia. Incombeva, ora non lo è più, fugge altrove»), da carnefice si fa vittima e si ritrova innamorato di un quasi doppio – almeno onomasticamente – della sua ex quando incontra Yaya: così diversa da Iaia e da tutte le altre donne, con i suoi tratti orientali, una lingua tutta sua e un alone di mistero che l’accompagna.

Dolce, leggiadra, come quel nome che sembra un ipocoristico e che pare sia la via verso una nuova vita e un nuovo rapporto con le donne e con sé stesso, a partire da lei: ma chi è davvero Yaya? Andrea Occasi lo scoprirà: Dal Buono ci conduce in un’indagine che esce dalla trama del romanzo e ci porta a riflettere su cosa si può diventare anche quando si sventolano buoni sentimenti, in una storia di eccessi e invenzione, così simile, a tante storie vere – di segno uguale o opposto – da cui si è circondati.

Andrea Occasi, però, è un dilettante, se lo si confronta col traditore seriale e professionale in carne e ossa raccontato dall’inchiesta di Sonia Kronlund nelle pagine de L’uomo dai mille volti. Inchiesta su un’impostura sentimentale (Minimum Fax, traduzione di Aisha Cerami).

Kronlund racconta questa vicenda come un thriller: è una storia spiazzante, crudele. Affascina perché chi legge ha la percezione sfumata di quelle vite nate già come letteratura, ma incupisce perché non si può non empatizzare di volta in volta con le vittime di Ricardo, di Alexandre, di Daniel o Richard. Di quel fotografo, di quel chirurgo, di quell’ingegnere. Di un argentino, un brasiliano, un portoghese. Che è sempre lui.

Kronlund

È incredibile e spaventoso come sia riuscito a destreggiarsi nel groviglio delle sue mille identità («Marianne scopre che Alexandre possiede una ventina di account email, decine di profili Facebook, alcuni profili sui siti di incontri e che si scrive con un’infinità di donne di paesi diversi»); a gestire contemporaneamente le diverse personalità da calibrare di volta in volta sulla sua vittima prescelta («Ogni occupazione che Ricardo si inventa nasconde un duplice scopo: incarnare un sogno universale e adattarlo alle donne che seduce»), spingendosi sempre al limite («Tutto questo, lo apprenderò più tardi, viene dal suo spirito di giocatore d’azzardo, che ha bisogno di adrenalina, del brivido, della sfida»), creando potenti connessioni, intime, urgenti («Il lavoro di medico militare in zone di guerra dona un’aria di urgenza alla loro relazione»), modulando di volta in volta la sua vita e la sua voce.

Così Marianne, Nicole e tutte le altre – una volta smascherato il re dei mitomani – confrontandosi nei loro racconti alla Kronlund sembra quasi che non riescano a far coincidere l’uomo che hanno vissuto: Ricardo incolla la giornalista a questa storia perché la fa riflettere sulle sue vicende sentimentali, perché da un certo punto in poi le fa capire che andare avanti e fermare questa folle corsa è necessario («mi convinco di agire per un bene superiore»), fosse anche pericoloso, per le vecchie e potenziali vittime di questo uomo dai mille volti e dagli occhi imprendibili («Ciò che mi colpisce è lo sguardo: gli occhi si muovono il più velocemente possibile, intenti a non farsi sfuggire nulla, scrutano i dettagli e i punti ciechi»).

Kronlund lo smaschera, lo inchioda, lo costringe a continuare la corsa, ma vendicandosi e ribaltando i ruoli («Questa corsa a perdifiato era tutto ciò che avevo a disposizione e ho deciso di approfittarne»).

Quella di Ricardo è una storia vera più letteraria della letteratura («In fondo realizza il desiderio di tutti noi di essere qualcun altro, di vivere altre vite che non siano la nostra»), la sua vita ha una trama degna dei migliori film e romanzi. Chissà se Ricardo sa chi è davvero? Lo ha mai saputo o nella disciplina della finzione, nel suo nome da personaggio, s’è perso nella sua fuga fino ad averlo dimenticato?

San Pietro

«Chi sei? È una domanda che suo padre sotto forme diverse gli rivolge spesso, una domanda che ogni volta gli scatena un sisma interiore»: chi sei? è la sottile scossa elettrica che governa la tensione del romanzo di Leonardo San Pietro, Festa con casuario (Sellerio).

Vincenzo sta andando a una festa universitaria, come tante, con la solita fauna che in una simile situazione ci si potrebbe aspettare («Maschere, vacue larve che volteggiano come condor inconsistenti sulla carcassa della civiltà occidentale»), ma leggendo ci si rende conto che è una festa diversa: è un gioco letterario, un divertimento di retorica e sintassi («la nostra vita accade quasi tutta fuori da una limpida sintassi, e che anche quando accade all’interno di una limpida sintassi sbrodola continuamente»), una festa con casuario. Il casuario è un animale pericoloso, è la scintilla che innesca l’incendio, il filo che tiene la trama («Tutto ciò che avviene nello stesso momento è connesso da fili invisibili»).

Quella di San Pietro è una «piccola storia tendente a illustrare quanto precaria sia la stabilità all'interno della quale crediamo di vivere, ovvero che le leggi potrebbero cedere terreno alle eccezioni, al caso, o alle improbabilità, e qui ti voglio», come scriveva Julio Cortázar.

Una storia in cui si sa che «è possibile, è possibile, è possibile vivere in milioni di modi, tutti leciti e tutti assurdi», storia che illumina facendo accarezzare a tutti il pericoloso casuario – sfidando il pericolo, essendo eroi per qualcun altro – e dice che tutti si personaggiano, sempre («fissiamo gli altri in una forma che ci è comoda per prevedere quello che faranno ed evitare di aver paura della loro complessità fluida e multiforme e terribile, e va bene così perché ci è utile nella vita di tutti i giorni, ma oltre il sipario nessuno di noi è veramente quello, nessuno può fissarsi in una forma e non essere più paurosamente dinamico, sfumato, vaporoso, mostruosamente individuale»).

San Pietro mette tutti sul palcoscenico, scende in profondità («Comprendere gli altri, e comprendendo gli altri comprendere sé stesso»): chissà che l’animale che molti si portano dentro non sia alla fin fine un pericoloso casuario? o che dentro – al nucleo di tutto – alla fine non ci sia nulla («a guardarsi dentro, e ciò che vede non lo stupisce poi molto. Nulla. Il nulla più assoluto»).

Di sicuro c’è che certe scritture hanno un gran coraggio (e ci vuole coraggio anche a toccarle), il coraggio di vedere le cose come sono davvero e di guardarsi dentro, per capire e denunciare anche quel che c’è fuori («una generazione che non parla e quando lo fa non viene ascoltata da nessuno, da un mondo che se ne frega e va nelle sue direzioni cieche, verso il profitto a tutti i costi, il caldo, le alluvioni, la depressione e l’ansia di tutti zittite solo individualmente e per poco con benzodiazepine e terapeuti, verso l’erosione di ogni spazio vero in cui stare con gli altri»).

Il romanzo di San Pietro è un gioco di invenzione gustoso e densissimo, un gioco di parole e piani letterari al centro («Un’autobiografia? Semmai un’autofiction, già un’autofiction gli risulta complicatissima da mandar giù, per l’oscena esposizione al mondo che comporta»), un fatto retorico contro la retorica, allergico alla vaghezza della prosa e di certe espressioni.

Un gioco che ci ricorda che «Le storie inventate – come diceva diceva Raymond Queneau – rivelano sempre quello che c’è sotto»: quelle di San Pietro, quelle di Dal Buono e – purtroppo – anche quelle di Ricardo (ricostruite dalla Kronlund), e che la cresta del casuario – per chi consacra la vita alle parole e alle imposture – è un po’ come le chiappe policrome del mandrillo di cui scriveva Giorgio Manganelli («Come il mandrillo non può mortificare la retorica delle sue chiappe policrome, così non potremmo toglierci di dosso, deliziosa maledizione, questo pieghevole vello di verbi», La letteratura come menzogna).

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