«Non esiste una giustizia di donna. Le donne non hanno giustizia». A questo punto della storia, quando rivolge queste parole alla giornalista Tina Zaninetti – giovane, infatuata di lei e «non una grande poeta» – Diana Karenne ha fra i venticinque e i trent’anni. Ha vissuto molte vite e ha già cambiato nomi e paesi. È una diva del cinema italiano ora, il cinema muto del 1917, e sta dirigendo Justice de femme!.

È una regista anche se il termine ancora non esiste e nemmeno il femminile di metteur-en-scene esiste. In Silenzio. Le sette vite di Diana Karenne, Einaudi, Melania G. Mazzucco con maestria assoluta ci avvicina al soggetto del racconto fino a farci trepidare per le ciprie avorio che da Parigi non arrivano perché c’è la guerra – eppure il film si deve fare! Verrà meno bene: anche i film sono feriti di guerra, dirà in seguito Diana.

Sembra una società in cui è possibile che una donna prenda in mano il lavoro estetico, intellettuale, ma anche concreto e organizzativo che è girare un film. Gli uomini sono al fronte, i produttori anche, ma le riprese devono continuare. Karenne è anche una produttrice, ha guadagnato abbastanza soldi da reinvestirli, come le dive di oggi, che fanno successo con ruoli canonici e poi usano “la propria voce” per raccontare storie di donne. Così Diana interpreta Lea, Maud.

Prima del buio

Nei cento anni in mezzo, fra lei e le attrici-produttrici hollywoodiane, c’è un tempo oscuro, per la condizione delle donne – il fascismo, poi un’altra guerra, poi il modello della brava casalinga preso dall’America suburbana degli anni Sessanta. Ma nel 1915-17, quando noi lettori conosciamo Diana Karenne, non è solo l’epoca ma anche l’industria a dare questo senso di tutto è possibile. Nel cinema girano, già da tempo a questo punto, tanti soldi, ma è un’arte ancora piratesca, che gli scrittori e le scrittrici (Annie Vivanti, Matilde Serao) un po’ snobbano, e in cui le regole e i ruoli di genere non si sono ancora incancreniti.

La giovane Zaninetti le dice che avrebbe voluto fare l’università, ma che i genitori non hanno voluto. «Potevi scappare di casa», è la risposta di Diana Karenne, e in questa risposta c’è tutta la differenza fra le donne che ce la fanno  – che immancabilmente devono farsi del male per arrivare dove vogliono, e scopriremo in seguito quando Diana si sia fatta male – e quelle di cui non si sente più parlare.

Diana si ripropone di farle da sorella maggiore, a quella ragazza come tante, studiose, poco coraggiose, di invitarla almeno a Roma, ma di Tina Zaninetti non sentirà più parlare. Di Diana Karenne invece, si sente parlare molto. La stella polacca, quando la Russia era nemica. La principessa del silenzio, secondo la definizione della Zaninetti.

Arriva a Roma dal nulla, senza una storia pubblica, senza una versione personale, con la capacità di dire poco di sé e lasciare che sia la narrazione visiva a condurla dove deve arrivare. Sa che ha poco tempo per inserirsi, in quella società non ancora troppo chiusa dell’Italia prima della grande guerra, e il modo che sceglie è un vestito eccentrico a una prima teatrale. Tutti la notano, ma soprattutto il marchese Giuseppe Medici del Vascello.

È su interessamento del marchese che entra nel neonato mondo del cinema, ma è anche a causa sua – di un suo conoscente, il Conte Gravina – che Diana Karenne verrà sospettata di essere una spia russa e tenuta sotto controllo per tutta la sua permanenza non solo a Roma, ma anche a Torino, Milano, Napoli. L’immensa ricerca che sottende al racconto di questa vita straordinaria è puntellata proprio da queste note del ministero: «“Viene mantenuta una continua riservata vigilanza”, comunica il 12 giugno 1916 il prefetto di Torino al ministero dell’Interno, dal quale provengono continue sollecitazioni circa la sospetta Dina Belogorski. “Finora però la sua condotta non ha dato luogo a rilievi di sorta, specialmente nei riguardi dello spionaggio”». Ma la cosa continuerà. Una donna che nei primi anni Trenta guadagna 60mila franchi all’anno sarà sempre un’osservata speciale.

Il senso dell’arte 

Diana Karenne non è venuta a Roma per fare l’attrice. È sempre chiaro che le sue mire sono altre, più alte, più intellettuali: vuole fare arte. Questo non vuol dire che il cinema sia un ripiego, anzi è la prima forse a dare dignità a questa forma, e scriverà anche un manifesto, anni dopo, che per quanto sia ancora insufficiente come prova di scrittura, troppo pieno di parole generiche, veicola una grande spinta al lavoro, a migliorare, a richiedere al cinema standard più alti, maggiore serietà e onestà

Si può dire cosa non è, Diana Karenne: non è una millantatrice, e se ne accorgono gli uomini che incontra, i produttori, anche quelli dalla pessima fama («Ma tutto sommato lei preferisce i produttori dalla pessima fama. Almeno non badano alla sua».), se ne accorgono i critici e se ne accorge il pubblico. «La più intellettuale delle attrici», è una trovata di marketing del produttore Pasquali, che sarà un suo grande amore, per lanciare una stella, ma è ancora, come le trovate di marketing più efficaci, una verità.

Ci sono tante foto nel libro Silenzio. Le sette vite di Diana Karenne, forse la mia preferita è quella scattata a corredo dell’intervista del 1918 (pag. 245), in cui è ritratta insieme ai suoi acquarelli, che suscitano l’interesse del suo intervistatore Fausto Maria Martini («Sul pavimento, fogli, libri, fiori, la menorah a sette braccia con le fiammelle accese. Nessun altro dei fotografi e dei pittori che la misero in posa ha saputo cogliere l’aspetto istrionico della sua perpetua recita»).

Diana Karenne è innatamente bohemienne. Avrebbe studiato musica e canto al conservatorio, essendo la figlia promettente – si scopre abbastanza presto, a circa un terzo del libro, perché la forza della storia di questa donna non è il classico passato misterioso – di un commerciante di cibo per cavalli ebreo che ha perso tutto in un pogrom del 1906 a Kiev («Era corsa al piano di sopra, in mezzo ai fanatici che spaccavano e devastavano ogni cosa, versavano alcol sui divani e appiccavano il fuoco. I soldi sono nella cassaforte, prendeteli, aveva urlato, ma lasciate stare i miei libri! Quei pazzi, totalmente ubriachi, erano rimasti sbalorditi dal coraggio insensato di quella ragazzina bionda con le trecce e la gonna a righe sporca di sangue…»). Qualcosa da quell’evento traumatico si rompe, eppure in quell’evento Mazzucco racconta di un carattere già formato.

Una storia italiana

Leggere un libro così è un regalo. È un libro immersivo, nel senso che è impossibile interromperlo ma è anche una lettura non convulsa, che sedimenta, accompagna. È un romanzo russo che ha una protagonista che è ancora viva, perché è davvero esistita, perché niente è inventato. Le fonti sono così tante, così precise, così incredibilmente scovate negli archivi, ma anche così profondamente rielaborate da questa scrittura che incanta, che non si sentono più.

La scrittura si avvicina e si allontana da un orizzonte di precisione storica e individuale che comunque resta sempre lì, sullo sfondo. E cioè di questo personaggio l’autrice sa tutto, tutto quello che è possibile sapere, ma decide cosa usare, il sapere tutto in senso storico e bibliografico non impedisce che Silenzio sia di fatto un grande romanzo.

È la storia vera di una donna che si è riscritta da sé tante volte, ma è scritto come un romanzo, senza alcun artificio o forzatura, in un processo naturale. Silenzio è il grande romanzo italiano, per il mondo che crea all’interno del mondo storico, realmente esistito, e perché è un mondo non solo italiano, ma quello di una ebrea di Kiev che si sente abbastanza italiana da «morire per la patria» sullo schermo per un film propagandistico.

È il grande romanzo italiano per come racconta la storia dell’Italia e dell’Europa attraverso le vicende di un personaggio che l’Italia la vede da fuori, eppure appartiene alle origini di questo paese, se davvero esistono (Roma di inizio Novecento, il cinema). È il grande romanzo italiano proprio perché è tutto vero, e anche questo è iscritto nella nostra letteratura, di cui Mazzucco è fra i più nomi più grandi.


Silenzio. Le sette vite di Diana Karenne (Einaudi 2024, pp. 656, euro 24) è un romanzo di Melania G. Mazzucco

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