Ci si rivede la prossima settimana, un certo giorno a una cert'ora. Si erano lasciati così i presidenti della Lega di Serie A, componenti della cosiddetta “Confindustria del calcio”, dopo il fallito tentativo di assemblea dello scorso 17 febbraio. Si doveva decidere sull’assegnazione dei diritti televisivi e sull'eventualità che vi fosse ancora un margine per tenere nella partita i fondi d'investimento nella realizzazione della media company. È andata a finire nella desolazione: 9 delle 20 società (Benevento, Bologna, Crotone, Genoa, Roma, Sampdoria, Sassuolo, Spezia e Torino) hanno fatto mancare il numero legale di 14 presenti nel corso del collegamento telematico. Un bel digital divide che è stato come scaraventare palla nelle tribune di uno stadio vuoto da Covid-19. Vai a riprenderla tu? Io no di sicuro.

Infine la data della nuova assemblea è stata ufficializzata a metà pomeriggio di venerdì 19 febbraio e fissata per il venerdì successivo, 26 febbraio, alle ore 9.30 in prima convocazione e 11.30 in seconda convocazione. Stavolta in presenza, niente alibi di connessione. Significa comunque altri nove giorni fra un tentativo e l'altro. Come se si avesse a disposizione tutto il tempo del mondo. E invece proprio il tempo è l'unità di misura dell’irresponsabilità imperante nel consesso guidato dal duo DalDe (Paolo Dal Pino e Luigi De Siervo, presidente e amministratore delegato). Stiamo arrivando alla fine di febbraio 2021 e ancora non sappiano chi (e se) trasmetterà le partite della Serie A per il triennio 2021-24. Un dato indicativo dello sfascio su cui le società di Serie A stanno danzando come in una trance da rave party. Se infatti si fa il confronto con le principali leghe calcistiche europee, quelle che secondo i presidenti più sciccosi dovrebbero costituire “il nostro benchmark”, il confronto è spietato.

La Premier League inglese ha assegnato a febbraio 2018 i diritti per il triennio 2019-22. A giugno 2018 è toccato alla Liga spagnola vendere i diritti sul medesimo triennio 2019-22. Un mese prima, maggio 2018, era toccato alla Ligue 1 vendere i diritti per il quadriennio 2020-24. E per quanto in Francia le cose siano poi andate malissimo a causa delle inadeguatezze di Mediapro, come raccontato in due riprese da Domani, rimane il fatto che da quelle parti si siano mossi con largo anticipo per monetizzare la risorsa più remunerativa dell'odierna industria calcistica. E infine è toccato alla Bundesliga tedesca, che ha assegnato a giugno 2020 (dunque già in piena era-Covid) i diritti per il quadriennio 2021-25. Invece in Italia, a quattro mesi dalla scadenza del contratto in essere, si continua a rinviare litigando. Come se i diritti televisivi non fossero rimasti l'ultima fonte di entrate reali per i club della nostra massima serie calcistica.

A proposito di benchmark

Ancora una volta è la parolina magica benchmark a dare la misura dell'inettitudine che alberga in assemblea di Lega. Le società del nostro massimo campionato piangono miseria a causa del Covid, che significa innanzitutto lamentare la botta subita a causa di quasi un anno di stadi chiusi. E invece il confronto con le principali leghe europee riferisce che su questo fronte la batosta vera, quella sanguinosa, l'hanno subita le società dei campionati concorrenti. L'ultimo rapporto Uefa sull'European Football Landscape, pubblicato a gennaio 2020 e relativo all'anno finanziario 2018, riferisce che fra le Big 5 del calcio europeo la Serie A registra l'incidenza più bassa per ricavi da botteghino (gate receipt) sull’intera struttura del business: il 12per cento, contro il 13per cento della Premier League, il 16per cento di Bundesliga e Ligue 1 e il 18per cento della Liga.

Né il dato di percentuale dice ancora tutto. Perché se ci si ferma a esso sembrerebbe che il danno subito dalla Serie A sia quasi uguale a quello della Premier League. Ma se invece si va a guardare quali siano gli incassi da botteghino che stanno dentro al 12per cento italiano e al 13per cento inglese, si scopre che alla Serie A corrisponde un incasso aggregato di 268 milioni di euro con media per club di 13,4 milioni, mentre alla Premier League corrispondono valori pressoché triplicati: 723 milioni di euro in valore aggregato e 36,2 milioni di euro in media per club. La Serie A è staccata nettamente anche dalla Liga (555 milioni di euro aggregati e 27,8 milioni di euro in media) e della Bundesliga (511 milioni di euro aggregati e 28,4 milioni di euro in media) e fa appena meglio soltanto della Ligue1 (266 milioni di euro aggregati e 13,3 milioni di euro in media).

Cifre che confutano in modo definitivo la pretesa che la crisi da pandemia abbia compromesso la competitività internazionale del massimo campionato italiano. Era già compromessa prima del virus. E anzi i maggiori danno subiti dalla concorrenza europea potrebbero avere in minima parte riequilibrato la situazione e senza che i club della cosiddetta Confindustria ci abbiano messo meriti propri. Ovviamente quel 12per cento italiano è una media che a sua volta incorpora ampie disparità fra club riguardo all'effettiva incidenza del botteghino sulla struttura dei ricavi. Ma rimane il fatto che, con l'esaurimento della vena data dalle plusvalenze – quelle vere, non lo scambio di figurine per valori finanziari lunari –, i diritti televisivi sono rimasti la sola credibile fonte di ricavi. Eppure i 20 presidenti stanno ancora lì a cincischiare e a farsi mancare la connessione. E se invece si ritrovano fisicamente, succede che vengano pure alle mani, come hanno fatto Preziosi del Genoa e Campoccia dell'Udinese lo scorso 11 febbraio. La nostra esimia classe dirigente.

Raschiare il fondo

In tutto ciò non si parla più dei fondi. Ossia i soggetti che avrebbero dovuto imprimere la svolta e dare linfa all'operazione della media company di Lega puntando capitale di rischio. Soltanto quattro mesi fa veniva annunciata in modo trionfale l'accettazione del consorzio formato da CVC Capital Management, Advent International e FSI come soggetto con cui negoziare la cessione del 10per cento della costituenda media company in cambio di circa 1,7 miliardi di euro. Ma immediatamente sono emerse le difficoltà. Il progetto, nebuloso in partenza, è rimasto tale. In compenso è stato chiarissimo che i club volessero continuare a comportarsi come sempre: massimizzare il profitto individuale, socializzare le perdite e provare a spennare il pollo che s'era appena accomodato al tavolo. La compagine guidata da CVC non si è vista offrire nemmeno la certezza di una clausola anti-Superlega. Ossia la garanzia che in corso d'opera i club di maggiore richiamo non mollino la compagnia per unirsi al campionato continentale d'élite, trasformando così in un guscio semivuoto la Serie A e la sua media company.

E così l'operazione ha avuto una brusca frenata. Forse è già sfumata e senza che i presidenti abbiano mostrato particolare sconforto. Al massimo, litigano anche sulla prospettiva di riavviare l'operazione o lasciarla morire di morte lenta. Adesso la scena è dominata dal rinnovato dualismo fra Sky e Dazn. È proprio per evitare di scegliere fra i due operatori che l'assemblea di Lega del 17 febbraio è stata disertata dai 9 club cui si deve il mancato quorum. Una risposta ai 7 club (Atalanta, Fiorentina, Hellas Verona, Inter, Juventus, Lazio e Napoli) che con una lettera indirizzata al presidente Del Pino avevano richiesto di votare immediatamente, con una situazione che pareva privilegiare Dazn. A questo svantaggio ha provato a rimediare Sky con una lettera ai club in cui offre un anticipo da mezzo miliardo di euro nel caso venga accettata la sua offerta.

Intanto però la tv satellitare dovrà versare i 130 milioni di euro della rata non pagata al termine della scorsa stagione. In quel momento Sky sperava di negoziare uno sconto per assorbire le perdite causate dal lockdown calcistico. Adesso dovrà pagare, come stabilito dal tribunale di Milano nello stesso giorno in cui le 9 società decretavano il digital divide. Per il prossimo 8 giugno è fissata una nuova udienza ma intanto il tribunale ha ordinato che venga soddisfatta l'ingiunzione avanzata dalla Lega. In quei 500 milioni promessi sono compresi i 130 milioni dovuti? La prospettiva, che vinca Sky o Dazn, è quella di debolezze destinate a sorreggersi reciprocamente. A cominciare dagli stessi concorrenti televisivi, che magari dopo l’assegnazione dei diritti troveranno la solita soluzione all’italiana: spartirseli di nuovo, con la differenza che stavolta potrebbe non essere Sky a dare le carte. I presidenti e il duo DalDe se la faranno andare bene. Come si son sempre fatti andare bene tutto quando, c’è stato da mettere le mani nel piatto. Il respiro corto come prospettiva, il nanismo come destino. E però, come litigano bene tutti quanti.

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