Non ho scritto Il libraio di Gaza in quanto arabo, ma in quanto uomo, un uomo colto dalla vertigine del reale. Che io sia franco-marocchino e non palestinese poco importa di fronte a quella che io avverto come un’urgenza immediata: testimoniare la nostra condizione comune.

Perché il gesto di Nabil – aprire la sua libreria ogni mattina mentre cadono le bombe, leggere Shakespeare sotto le macerie delle case, regalare un libro invece di venderlo – è profondamente radicale. In un mondo in cui la mera sopravvivenza materiale finisce per essere l’unica preoccupazione, continuare a leggere è un atto di sovranità assoluta.

Significa affermare che lo spirito resta libero quando tutto il resto è asservito. Sì, questo è un libro politico, ma non in senso settario. È politico come lo è ogni tentativo di restituire un volto umano a ciò che i media e i discorsi comuni riducono a mere statistiche o a slogan. È politico come lo è il rifiuto della cancellazione. Politico come è politica la convinzione che dare un nome alle cose significhi compiere un atto di resistenza contro la loro scomparsa.

Ho scelto la forma del romanzo perché permette questo approccio indiretto, empatico, questo modo di raccontare l’indicibile senza pretendere di afferrarlo completamente. Come scriveva Simone Weil, che cito in epigrafe all’inizio del romanzo: Solamente un essere predestinato ha la facoltà di domandare ad un altro: «Qual è dunque il tuo tormento?».

Questa capacità nasce solo dopo aver attraversato l’oscurità della notte. La letteratura ci permette di entrare nella notte senza appropriarcene, di interrogare il tormento dell’altro senza pretendere di comprenderlo del tutto. È esattamente ciò che rappresenta Nabil: una presenza che cura la sofferenza altrui offrendo non risposte, ma libri, ovvero spazi in cui respirare quando manca l’aria.

Cercare il dialogo

Sono politologo, islamologo e ricercatore. Sono impegnato nel dialogo interreligioso fin da quando avevo quindici anni. Il mio percorso è quello di un costruttore di ponti tra i mondi: ho scritto libri con padre Christian Delorme e con la rabbina liberale Delphine Horvilleur, e mi sono sempre rifiutato di chiudermi in una visione unica della religione e del mondo. Inoltre, e ancora più importante, ho organizzato con la comunità ebraica, con padre Émile Shoufani di Nazareth e con Leila Shahid, palestinese, un viaggio ad Auschwitz che ha riunito israeliani, palestinesi e francesi di tutte le confessioni.

Da questa esperienza è nato il libro Un Arabe à Auschwitz, un titolo che dice tutto sulla volontà di attraversare i confini dell’indicibile per creare spazi di reciproco riconoscimento. Credo fermamente che lo sforzo di comprendere l’altro non significhi tradire la propria storia, ma compierla nel senso più profondo. È precisamente questa etica dell’incontro che ha dato vita a Nabil, il nostro libraio che, come me, rifiuta appartenenze esclusive.

Un uomo giusto

Di fronte a Gaza, dobbiamo confrontarci tutti con la nostra impotenza collettiva. Il diritto internazionale vacilla, gli ideali crollano e la nostra collera rischia di dividerci ancora di più. Questo conflitto ci riguarda tutti in modi diversi: richiama i paesi del sud del mondo all’esperienza brutale della colonizzazione, l’Europa alla colpa della Shoah, e mette a confronto due sofferenze che l’Occidente non sa affrontare, pur essendone la causa.

Ciò che mi tormenta non è tanto la questione politica quanto quella più essenziale: «Che cos’è un uomo giusto in tempo di guerra? Come preservare la propria umanità quando tutto spinge verso l’annientamento?». Nabil, il mio personaggio, mi permette di esplorare questo interrogativo senza risolverlo, di mantenerlo vivo in mezzo allo scontro di granitiche certezze.

La letteratura non è mai appropriazione, bensì tentativo di istituire una relazione. Raccontando la storia di un libraio a Gaza, non pretendo di parlare al posto dei palestinesi, ma di creare uno spazio in cui tutti possiamo riconoscerci. Credo nel potere della bellezza e in quello delle parole in particolare, capaci di farci fermare per un attimo, di rivolgerci al nostro cuore, di nutrire quella resistenza interiore che rischia di soffocare sotto la nostra legittima collera.

Se scrivo su Gaza è perché questo conflitto rivela la nostra comune umanità in ciò che ha di più fragile e prezioso: la nostra capacità di raccontare storie quando tutto crolla. Come Nabil, che regala un libro invece di venderlo, io vorrei offrire queste pagine non come una risposta, ma come uno spazio in cui la dignità umana può erigersi, ancora e sempre, in mezzo alle rovine.


Il libraio di Gaza (Corbaccio 2025) è un romanzo di Rachid Benzine. L’autore presenterà il romanzo l’1 ottobre 2025 alle 18:30, ai Granai a Roma, in dialogo con Karima Moual. 

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