Una signora ha raccontato su un social di aver visto i genitori di un bambino di tre anni sgridare il figlio perché si era sporcato le scarpe bianche. Molte persone hanno commentato l’assurdità dell’episodio: è ovvio che questi genitori sbagliano, i bambini a quell’età non vanno ripresi per una cosa del genere, e poi cosa gli compri le scarpe bianche a tre anni, ma prendigliele di un altro colore, no? Povero bambino. E se proprio vuoi che le metta bianche devi essere disposto ad accettare che le imbratti. Un bambino dell’asilo che non distrugge le scarpe candide forse è una statua di cera, è finto, è un frammento della tua immaginazione.

Tuttavia non è mancato chi ha difeso l’atteggiamento di quei genitori, non tanto in sé, quanto seguendo anzitutto il principio in base al quale ogni genitore ha diritto di fare come vuole con i propri figli (principio assai discutibile), e in seconda battuta dicendo che dobbiamo smetterla di giudicare e di raccontare quello che fanno gli altri, al solo scopo di prenderli in giro sui social.

Intelligenza infantile

L’aspetto interessante di questo piccolo dibattito non è tanto la sua profondità (scarsa, in fondo c’è poco da dire), quanto la sua stessa esistenza: il bambino di tre anni, le scarpe bianche, i genitori che sgridano, le reazioni a favore e contro. Sembra un quadretto dei tempi andati, e in qualche misura sembra strano che ci troviamo a parlare di qualcosa che siamo certi di avere, come civiltà, già discusso molti anni fa. Forse ricordiamo male?

Eppure siamo sicuri di avere già stabilito da tempo che i bambini vanno incoraggiati e resi indipendenti, e che per renderli indipendenti dobbiamo accettare che generino un po’ di disordine nelle nostre vite. Questo disordine un giorno ci sarà utile, perché un bambino incoraggiato a muoversi liberamente imparerà prima del tempo a vestirsi da solo e a mettere a posto le sue cose, e all’inizio farà tutto male, ma poi di colpo farà tutto bene. L’infanzia del resto contiene questi miracoli, molto più importanti del non sporcarsi le scarpe.

Un esempio simile lo possiamo fare per l’alimentazione: un bambino che viene incoraggiato a mangiare da solo il prima possibile (con le mani, per forza di cose, all’inizio), e che viene imboccato poco, svilupperà un rapporto allegro con gli alimenti, e imparerà prima a usare le posate e a comportarsi bene a tavola. Non si chiama “giocare col cibo”, come si diceva un tempo, si chiama imparare, fare esperienza, costruire il tuo cervello. Fra l’altro noi adulti, senza rendercene conto, impariamo molto a nostra volta, quando incoraggiamo l’indipendenza dei figli e osserviamo quello che accade. Questo perché l’infanzia è un luogo di meraviglia che ci può aiutare a guardare le cose diversamente.

L’infanzia, dunque, è un generatore di intelligenza. Però se lo scrivi su Twitter (una volta, tempo fa, l’ho scritto) nascerà un dibattito, o perlomeno alcuni ti diranno «Signora, lei si sbaglia, non deve far mangiare il suo bambino con le mani. Lei non lo sa, ma sta crescendo un serial killer».

Discussioni (ri)aperte

L’infantilizzazione del dibattito sull’infanzia, ossia il fatto che si moltiplichino le discussioni infiammate su cose che ci sembrava fossero state già state discusse e risolte, mi colpisce da un po’ di tempo. La questione non è tanto essere dalla parte giusta, è proprio il fatto che si senta la necessità di affrontare gli argomenti, gli aneddoti, le immagini che avevamo già archiviato.

Per istinto verrebbe da dire che un paese con bassa natalità forse non sa come sono fatti i bambini. Sì, è vero, tutti siamo stati piccoli, ma sappiamo bene che il sé vissuto è diverso dal sé ricordato, dunque parlare di bambini facendo riferimento alle proprie esperienze infantili non è un approccio del tutto soddisfacente. I bambini, poco presenti nella vita quotidiana del paese che invecchia, diventano creature astratte, concetti da recuperare con fatica. Questa è una prima spiegazione dell’infantilizzazione del dibattito. Ma non so se mi convince, mi sembra di farla troppo facile.

Forse la nostra scarsa conoscenza collettiva dell’infanzia è parte di quel distacco più generale dalla realtà che ci sembra di sperimentare a vari livelli. Oggi esiste il sé che vive, esiste il sé che ricorda, ma esiste anche il sé che fa dibattito, ed è un sé di proporzioni gigantesche. Questo sé abita in una nuvola, e non ha rapporti con il sé che vive e con il sé che ricorda. In compenso parla moltissimo con i suoi simili, ossia con gli altri sé che dibattono. Parla molto, parla e basta, mentre gli oggetti reali, presenti o solo ricordati, si allontanano.

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