Dimenticate il British Museum. Dimenticate tutti i musei di storia antica che avete visitato in vita vostra: il vasellame malinconico rinchiuso dietro le teche, le opache monete sorrette prosaicamente da piedistalli di plastica. Dimenticate questa idea di antichità insieme inaccessibile e iperanalizzata, stipata in vetrinette ma spiegata minuziosamente in brochure e audioguide. Dimenticate la boriosa solitudine dei busti decapitati su cui si sono spese ore di speculazioni. Dimenticate tutto questo, dimenticate il concetto di “museo”, se riuscite, e immaginate per un attimo di poter accedere alla storia, al passato, direttamente, senza vetri divisori e conferenze, senza che centinaia di mani e cervelli abbiano già selezionato, manipolato, e raccontato quegli oggetti. Immaginate di trovarvi immersi nella storia, letteralmente, fino alle caviglie. Ci siete riusciti? Bene. Ora vi dico dove vi trovate: sulle rive del Tamigi.

I reperti del fiume

Avete capito bene: le sponde del fiume londinese sono il più ampio (quasi 18 chilometri) sito archeologico d’Inghilterra. Questo ha a che fare con due ragioni, una geologica e una politica. Quella geologica è che a causa della prossimità al mare il livello dell’acqua fluttua di ben sette-dieci metri per due volte al giorno con ogni marea. Così, ogni volta, le acqua torbide si ritraggono come un sipario su un camposanto di oggetti perduti, preservati come sacre reliquie nell’abisso.

La ragione politica è che il Tamigi è stato a lungo il porto più grande del mondo, collegamento vitale tra l’impero britannico e il resto del pianeta. Dunque era costellato di moli e banchine, cantieri navali e di demolizione, fabbriche e mercati del pesce, macelli e birrerie, comunità fiorenti di mercanti e costruttori navali. Così, per duemila anni, il Tamigi è stato un bacino di cosiddetti “rifiuti”, di cui il più comune ritrovamento al giorno d’oggi è la pipa di ceramica, utilizzata dal Cinquecento al primo Novecento e gettata sistematicamente in acqua dopo un unico utilizzo (ne ho trovate diverse anch’io, ne farò una scultura).

Naturalmente, il concetto di “rifiuto” è strettamente legato all’epoca. Quello che oggi, nelle nostre strade, è rifiuto—le lattine di Coca-Cola schiacciate, gli scontrini appallottolati, le grucce di plastica rotte e i test Covid monouso, e così via—potrebbe essere oggetto di studio e meravigliata contemplazione per un Andy Warhol del futuro. Viceversa, ciò che oggi ci porta il Tamigi era all’epoca privo di interesse.      

«Ho immaginato gli inglesi del futuro percorrere le sponde del Tamigi, ormai zeppo di erbacce e di rifiuti», scriveva un giornalista sul London Magazine nel 1745, ignaro che bottoni e monete, barattoli e cocci, sarebbero stati un giorno considerati un tesoro, tutt’altro che un rifiuto.

Oggetti che rinascono

Ma basta davvero il tempo a segnare il limite—anzi, l’argine, per restare in campo semantico fluviale—tra il rifiuto e il tesoro, o c’è bisogno di un valore aggiuntivo, che sia economico o affettivo? Cosa vale di più, la medaglietta d’oro degli anni Sessanta o la moneta da pochi centesimi intagliata nel Seicento con la scritta “I love you, Mary”, con un buco, perché l’amata la porti al collo? Quest’ultimo oggetto è uno dei più comuni, poiché l’usanza era che se l’uomo non era riamato la donna avrebbe buttato la medaglietta proprio nel fiume. Così, secolo dopo secolo, il grigio Thames continua— con la stessa solerte abnegazione di un amante rifiutato— a mostrarci i cimeli arruginiti di amori infelici.

Il processo di risignificazione delle cose non è operato solo dal tempo, ma anche dall’acqua, implacabile trasformatrice che muta fondi di bottiglia in ciotole eleganti e pietre comuni in cesellati simil-coralli. Il fiume offre alla banalità, alla prosaicità dell’uso comune, un’opportunità di trasmigrazione. Bisognerebbe parlarne coi giapponesi, che fanno i funerali alle fotocopiatrici: in cosa si reincarnerebbe, chiederei loro, una fotocopiatrice gettata nel fiume.

Mi sono già occupata, su questo giornale, di cose—quelle rivendute nel marketplace di Facebook—interrogandomi sulla corrente emotiva che sta dietro l’atto di cedere oggetti intimi della propria quotidianità. Sulle rive del Thames, invece, mi interrogavo sulla magia di oggetti ormai liberati da ogni corrente: emotiva, funzionale, e ora persino da quella del fiume. E mi è sembrato che fossero quanto di più vicino esiste alla das Ding lacaniana: l’oggetto antico e indimenticabile che deve continuamente essere ritrovato, che in termini psicanalitici è il desiderio della madre: sarà un caso che alla madre è legato anche il simbolo dell’acqua, inconscio che tutto inghiotte, eppure ci restituisce?

Ispezionare il fango

Ho parlato con una mudlarker contemporanea, Gail Howell, una delle partecipanti alla mostra collettiva Totally Thames, che ha messo in mostra di recente i migliori ritrovamenti sulle sponde fluviali.

 «Fin da piccola amavo andare a caccia di tesori, scavavo nel mio giardino. Sono di Manchester ma mi sono trasferita a Londra trent’anni fa, per insegnare arte ai ragazzi, ma ho scoperto questo hobby incredibile solo qualche anno fa. È un passatempo eccitante: anche d’inverno, lottare con gli elementi pur di trovare il prossimo oggetto inusuale. Ed è un modo per farsi degli amici. Ce ne stiamo tutti lì a stupirci dei nostri ritrovamenti. La cosa più bella che ho trovato è un coccio di ceramica bianco e marrone che raffigura un bambino che piange. È una rarità, poiché è diverso dalla solita ceramica, e poi si è rotto in modo perfetto, preservando il volto triste di quel bambino. La cosa più strana che ho trovato invece è un catetere per le tube di Eustachio dell’Ottocento, che si usava all’epoca per sbloccare l’orecchio interno, e ha un piccolo anello all’estremità per segnalare la direzione della curva, il che era essenziale per quando il catetere veniva infilato nel naso».

Vi chiederete cos’altro si trova. Un po’ di tutto. Ecco una lista non esaustiva di oggetti esibiti alla mostra: arti di bambole di porcellana, monete romane, dentiere, posate, oggetti sacri, armi del neolitico, spille di giada e d’argento, ciondoli d’oro, scarponcini da bambino di epoca vittoriana, una disturbante divinità propiziatoria con la schiena zeppa di chiodi.

Dopo la mostra, che naturalmente si svolgeva a due passi dal fiume, sono scesa anch’io a cercare tesori. La riva era un magnifico cimitero di cocci, di storie da scoprire. Migliaia di ossa animali, vertebre coperte di muschio, fondi di bottiglia che anni di onde hanno reso ciotole, metri e metri di pietre rossi che altro non sono che tegole di tetti, alcune del medioevo, spazzate via dal grande incendio del 1666.

Il mudlarking, ovvero “ispezionare il fango”, è una tradizione locale antichissima. I mudlarkers costituivano nell’Ottocento lo strato più basso della società. Si trattava perlopiù di bambini e anziani molto poveri che, i vestiti laceri e i piedi sanguinanti, perlustravano le rive in cerca di cose da vendere. Bambini e anziani: i più vicini ai lembi ultimi del tempo umano, la nascita e la morte, non potevano che essere i custodi ignari di quel filo invisibile e fangoso che lega ieri e oggi nel flusso impietoso e magico del fiume, e della vita.

© Riproduzione riservata