Mi raggiunge la notizia nefasta che Luca Serianni, l’amabile e autorevole mago Merlino che ha iniziato generazioni di matricole romane all’incanto della storia della lingua italiana e dei suoi seri giochi di confortante razionalità, è stato vittima di un grave incidente a Ostia, e versa in drammatiche condizioni al San Camillo. Che dolore.

Vorrei confessare a chi legge queste lettere settimanali, quasi giunte alla prolungata pausa agostana, che tutta la passione filologica che le ha animate quest’estate scaturisce senz’altro dalle affollatissime lezioni che quel prodigioso professore, discreto e carismatico, impartiva alla Sapienza quindici anni fa, quando le frequentavo seduto per terra, o sui davanzali di travertino dei finestroni delle aule titaniche. E a quelle, invece raccolte e sorbite da soffici poltrone azzurre, che veniva (in Frecciabianca) a pronunciare a Pisa, pochi anni più tardi, in visita alla Scuola Normale Superiore.

Per chi non c’era: immaginate il babbo di Indiana Jones – ma subito simpatico, senza bisogno di quella prima oretta di film. Immaginate Albus Silente, il presidente Bartlett di The West Wing, Obi-Wan Kenobi (quello di Alec Guinness). Serianni ci appariva come uno dei pochi autentici luminari che autenticamente avessero voglia di insegnarci quel che sapevano. Giocoso senza essere buffo, ci appariva insomma prossimo e siderale, sia accessibile che remoto: insegnava il corso introduttivo e curava dizionari e grammatiche di prestigio, sedeva alle nostre commissioni di laurea e a quelle ordinarie delle maggiori accademie della nazione e del mondo.

Chi faceva la tesi con lui era automaticamente credibile, chi gli preferiva un altro (pur magari eccellente) professore nella stessa materia perdeva un’occasione – e si accusava, perfidamente, di codardia. Non perché Serianni fosse particolarmente severo agli esami, tutti condotti da lui medesimo con sobrio spirito di servizio, anzi: era rassicurante, sereno, chiaro, onestamente radicato in quel che per un semestre aveva lucidamente spiegato, passo dopo passo, in classe. A chi faticava a parlare, per gola secca o improvvisi oblii intorno all’apocope e all’epentesi, porgeva prontamente una caramella.

La questione era che tutta quella bonaria precisione, tutto quel lapalissiano sapere così apparentemente privo di snobismo e di fastidio, non ci erano familiari, e ci intimidivano. O almeno intimidivano me, che infatti non riuscii mai a prendere la lode.

Illustrazione di Alessandro Giammei

Mi auguro sinceramente – anzi, ci auguro – che Luca Serianni si riprenda, e che torni a illuminarci con la sua affabile erudizione (che forse ha ispirato la fiducia nei linguisti di cui ultimamente Alfonso Berardinelli si è lamentato). Mi vergogno però a dedicargli questi miei insufficienti esercizi sulle parole, sul maschile e sul femminile della grammatica coi loro curiosi risvolti etimologici. Penso che quasi chiunque l’abbia incontrato lungo il proprio percorso accademico lo consideri, in qualche modo, un mentore, e forse molte e molti, come me, ancora sentono un filo d’inadeguatezza a scrivere in italiano (specie quando scrivono a proposito dell’italiano) immaginandolo come possibile lettore.

D’altronde è pensando a lui che oggi mi è venuto in mente di cominciare da Jean-Luc Picard, il capitano dell’astronave galattica Enterprise della seconda generazione di Star Trek. Interpretato da un formidabile Patrick Stewart, persino troppo bravo per quel fantascientifico ruolo televisivo, Picard è un archeologo oltre che un ufficiale della flotta stellare: è un umanista dunque, un condottiero amichevole ma dal forte ascendente, capace di incutere rispetto senza ricorrere alla propria autorità gerarchica.

La sua figura mi aiuta a spiegare le figure retoriche che animano la lingua, dalla complessità figurale del dettato poetico alle unità minime delle parole (delle loro radici addirittura) che pure sono spesso figurate, in un discorso che parte dall’episodio Darmok del 1991 – secondo me un caposaldo popolare per capire cosa sia la filologia – e attraversa un po’ di Dante, un bel po’ di Sfera Ebbasta, e un po’ troppi voli pindarici etimologici, fino a raggiungere la strana coppia lessicale della settimana: quella di «maglia» (che certi linguisti del secolo scorso legavano alle foreste della costa mediterranea) e di «maglio» (parola desueta, dannunziana, che io sfacciatamente vorrei collegare a Thor – il supereroe, specificamente nell’ultimo film che martella gli stereotipi di genere).

Trovate l’articolo su Domani online qui, e sabato sarà come di consueto in edicola. È il penultimo di “Cose da maschi in estiva”, e gli seguirà una cicalata sulla busta e sul busto – anche se devo ancora visitare la Knight Library dell’Università dell’Oregon per appurare che la coppia funzioni secondo il gioco cominciato quattro settimane fa, quindi non ci metto la mano sul fuoco. Avrei voluto scrivere di più sulle figure retoriche. Anzi, sulla figuralità e sulla retorica in genere: sull’immaginario e sulle strategie che adottiamo per farne uso.

Più scrivo di parole invece che di cose, più mi accorgo che me ne servono di più, che il formato non è capace abbastanza per contenere il ragionamento. Ma forse il problema è che non ho ancora capito quale sia davvero, di questo ragionamento, il bandolo: come a un esame per cui ho studiato troppo (succede!). D’altronde si muore di caldo, le notizie sono nefaste, la malinconia meridiana domina la mia mezza estate. Mi consola però che ci sia ancora una settimana per tirare le fila di questa escursione filologica. E mi consola ancora di più annunciare che mercoledì prossimo uscirà anche un nuovo pezzo ospite di Lorenzo Gasparrini, stavolta dedicato a un imbecille (ma rivelatore) topos: l’idea che dichiararsi femministi serva agli uomini per rimorchiare.

Stay tuned, come si dice da queste parti!

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