«Amo la Pasqua. Nascere sarà pure bello, ma risorgere mi è sempre parso meglio». Mi aggrappo a un messaggio di un anno fa di Michela per scrivere di lei e per chiedermi con lei, nel momento della sua morte arrivata feroce, nonostante tutto inattesa, cosa significhi risorgere, rinascere. Per ciascuno di noi, nella sua individualità, e per quello che siamo insieme.

Una comunità di lettori, intellettuali, militanti, cittadini, amici, che restiamo senza di lei. Senza le sue parole, la sua parola. Senza il suo corpo.

Dei corpi, e del suo corpo, Michela aveva scritto e detto moltissimo, e ancor di più aveva mostrato, fino agli ultimi giorni, con il sorriso postato su Instagram, dall’ospedale. Il corpo di Michela fotografato, esposto, esibito in copertina, strappato agli odiatori, riconosciuto, riconquistato, risorto più volte.

Un corpo gettato nella lotta, come quello di Pier Paolo Pasolini. Un corpo politico, lei da sola, in ogni sua manifestazione, negli anni in cui il corpo collettivo - partiti, istituzioni, case editrici, giornali - non reggeva più, si sfibrava nel tradimento, si disfaceva nel conformismo, lasciandoci indifesi, senza casa, in esilio, in esodo perenne. Corpi estranei a noi stessi.

Diversa e uguale

In questo peregrinare, Michela era la più preparata ad affrontare «dieci vite», tutte degne di essere vissute, senza smuoversi di un millimetro, restando sempre sé stessa. La ragazza di Cabras, affacciata sullo stagno dove si muovono i fenicotteri rosa, “sa zenti arrubia”, la gente rossa, come la chiamano lì. L’animatrice dell’Azione cattolica, vice presidente diocesana e incaricata regionale per la Sardegna.

L’indipendentista sarda, orgogliosa dell’isola. La scrittrice famosa. Sempre diversa e sempre la stessa: una identità che non si poteva aggirare, che le permetteva di attraversare l’orient express, le polemiche social, i diversi abiti della sua vita, compresi quelli firmati dagli stilisti più famosi, di indossarli senza esserne indossata, senza che il vestito o il format o la testata utilizzata, e perfino la malattia, potessero condizionarla, sviarla da ciò in cui profondamente credeva. La sua fedeltà.

Il caso Murgia

È esistito un caso Murgia, nella cultura italiana, in questi anni. Lo scandalo Murgia, nel senso classico, di ostacolo, di pietra di inciampo. Inaccettabile, scandalosa per i nemici, ma anche per gli amici. Lo scandalo di parlare di matria, e non di patria, negli anni del sovranismo, perché «la patria è il luogo che ti riconosce, la matria è quello in cui tu impari a riconoscere chiunque», la destra non gradì.

Lo scandalo di stilare le istruzioni per diventare fascisti nell’Italia costruita in dieci anni di centrosinistra al governo, pallido, identico alla destra nelle soluzioni, ipocrita nei suoi riti comandati: «Troppi gli anni di retorica. Troppe le giornate della memoria. Troppa la fuffa ideologica sulla Resistenza che ha fatto sì che del nonno partigiano si ricordino tutti e del nonno fascista mai», alla sinistra ufficiale non piacque.

Lo scandalo dello schierarsi: «Schierarsi significa tirare una linea netta tra come è legittimo agire e come non lo è e dire in modo inequivocabile che oltre quel confine non si può e non si deve andare. Schierarsi è indispensabile perché su quell’idea non si gioca più la differenza tra la destra e la sinistra, ma tra la democrazia e il fascismo», scriveva Murgia sull’Espresso il 24 giugno 2018, con Salvini ministro dell’Interno. Fu per lei una dichiarazione di intenti, poteva finalmente scrivere di politica con i suoi codici.

L’Antitaliana

Sull’Espresso divenne l’Antitaliana, la rubrica che era stata di Giorgio Bocca e di Roberto Saviano, che ha affiancato fino all’ultimo respiro, nelle udienze del processo intentato da Meloni e Salvini. Chi oggi le manifesta rispetto «nonostante le idee diverse» deve sapere che Michela si identificava con le sue idee, lei era le sue idee e le sue idee la sua vita.

C’è un incontro in cui Michela lo spiega bene, nel 2017 è con Taty Almeida, una delle madri argentine di plaza de Mayo, che le parla del figlio desaparecido Alejandro. «Si sporge e mi stringe le mani, come se la sua storia avesse anche una consistenza tattile, qualcosa che devo sentire sotto le dita per capirlo davvero.

Tutto in lei appare liturgico e ne è così consapevole che prima di iniziare l’intervista si annoda in testa con solennità il fazzoletto bianco e dice: “Adesso parlo anche per loro, non solo come me stessa”».

Schierarsi perché non si parla come sé stessi, ma per gli altri. E gli altri li devi incontrare, accogliere, con lo slancio che la spinse a coinvolgere altri colleghi agli inizi dell’impresa della nave Mediterranea Saving Humans.

Come un fenicottero

Michela Murgia è stata l’intellettuale più potente del nostro tempo, la più politica, la più sovversiva. Con le sue contraddizioni. Sfrontata, manovriera, coltivava ogni anno, con mesi di anticipo, il perfido progetto di far fallire gli auto-candidati al premio Strega, sembrava fortissima e sosteneva tutti, eppure era vulnerabile, fragile, a tratti ingenua. La storia ha una consistenza tattile, la puoi sentire sotto le dita, come sentivi Michela.

La morte è un passaggio dal «già al non ancora», aveva detto, con un linguaggio antico e condiviso. In God save the queer aveva scritto della sua devozione per l’icona della trinità di Andrej Rublev, che non è gerarchica come quella del cristianesimo occidentale, ma circolare. «Al tavolo di quel pranzo c’è posto per una sedia in più, ed è la mia. La Trinità mi fa spazio», ha scritto. Qualcosa che non può stare nella gabbia, un’immagine che ti include.

Non si può rinchiudere Michela Murgia in una gabbia, in una definzione, qualcosa ti sfuggirà sempre, ti fregherà sempre. Una sera eravamo insieme al Circo Massimo, c’era una giostra che faceva parte della scenografia del Rigoletto e noi eravamo in attesa di cominciare un incontro dell’Espresso, il nostro giornale.

Una tentazione troppo grande per lei. Dopo qualche minuto Michela era lì, volteggiava leggera e felice. Come un fenicottero che si lascia ammirare meglio all’ora del tramonto, quando sta per prendere il volo.

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